«Sono contenta, stordita, domenica ho avuto l’adrenalina alle stelle… Io, Maria Antonietta Coscioni, eletta presi dente dei radicali! Io al posto di Luca, a fare la sua battaglia, che è anche la mia. Non voglio essere vissuta come la vedova. Anche Marco Pannella dice che ho una mia identità, certo associata a quella di Luca che non c’è più. Ma è come se questo nuovo ruolo già mi appartenesse, lo sento in un certo senso mio. Darò il volto alla campagna per la libertà di ricerca, agirò nel nome e per conto delle tante donne, come Mina Welby, che soffrono accanto a malati senza speranza. Il 18 e il 19 novembre sarò in piazza per raccogliere firme. Vogliamo che in Parlamento si possa discutere di testamento biologico, vogliamo anche un’indagine conoscitiva sull’eutanasia clandestina Maria Antonietta Farina Coscioni, neopresidente dei radicali, dice che è stata una «gran sorpresa». No, non se l’aspettava di occupare la poltrona di Luca, morto di sclerosi laterale amiotrofica, il 20 febbraio di quest’anno. Eravamo andati a trovarla poche settimane fa, per Repubblica Radio TV, nel suo appartamento a Orvieto: la loro casa, con i divani bianchi, le vetrate che danno su un piccolo giardino, lo studio di lui lasciato com’era. Maria Antonietta è una giovane donna che riesce ad essere solare nonostante quel che le è successo. Di lei, Luca Coscioni diceva:«È la mia voce, il mio corpo, il mio spirito, se uno spirito esiste». Storia di un amore ma anche di una comune battaglia politica. Con un particolare inedito: la telefonata in piena notte di Marco Pannella che voleva convincere l’amico a farsi tracheotomizzare, a posticipare l’ora della fine.
Presidente Coscioni, adesso dobbiamo chiamarla così, preoccupata per il nuovo incarico?
«No, perché siamo tre donne ai vertici, io, Rita Bernardini, e la tesoriera Elisabetta Zampa rutti. Non mi sento sola e poi c’è il ricordo di Luca»
Il vostro amore è nato prima della militanza radicale?
«Sì, ci siamo conosciuti dodici anni fa. Lui era professore a contratto di economia all’università di Viterbo, io seguivo il suo corso. Ci siamo appassionati subito l’uno dell’altra. Ci siamo amati spensieratamente per un anno. Era il 1994…»
Poi una busta chiusa ha cambiato la vostra vita.
«Luca l’ha chiamata la sentenza di condanna a morte. Si stava preparando alla maratona di New York quando gli si è bloccata la gamba destra. E’ andato dal neurologo, il medico ha infilato in una busta la diagnosi: sclerosi laterale amiotrofica, la Sla, una malattia che uccide»
Non le sembra che la politica tenti quasi sempre di rimuovere la sofferenza?
«Luca sosteneva che sia il centrodestra che il centrosinistra non vogliono che temi scomodi come la vita e la morte facciano parte del dibattito. Il suo ultimo slogan era: «Dal corpo dei malati al cuore della politica». Faceva il politico già prima di star male e diceva sempre: “Devo ringraziare la malattia perché, accanto alle altre questioni di cui mi occupo, mi ha sollecitato ad affrontare la grande sfida, quella per la libertà di ricerca”. Luca ha vissuto di speranza, ma soprattutto ha dato speranza, trasformando la sofferenza in senso e significato, pur sapendo che la sua era una battaglia che non faceva per se stesso, ma per altri, per le future generazioni»
Lei parla della sua esperienza con una grande serenità.
«Noi non abbiamo mai pensato alla morte, vivevamo per scongiurarla. Non ho mai pensato che Luca potesse morire, neanche quando è arrivato il medico della rianimazione»
Ha percepito il confine, il momento in cui le cose stavano andando oltre?
«Io no, Luca sì ed è per questo che ha scelto di non andare in ospedale, di non sottoporsi alla tracheotomia, di non attaccarsi ad una macchina per respirare»
Èstata d’accordo con quella scelta?
«No, ho sofferto tantissimo, ho provato un dolore grandissimo. Per Luca erano ore di incertezza: lo faccio, non lo faccio, ci confrontavamo, anche con il medico. Lui ha capito che era arrivato il momento di scegliere. Lo ha capito molto meglio di me e anche di Pannella. Ricordo una telefonata di Marco in piena notte. Voleva che Luca sapesse che noi tutti eravamo pronti a sostenerlo, noi tutti speravamo che lui decidesse di sottoporsi alla tracheotomia. Ma non è andata così. Alla fine ha deciso lui, solo lui»
Luca Coscioni ha voluto che le sue ceneri finissero nel golfo di Porto Santo Stefano.
«E io ho esaudito il suo desiderio. Amava molto il mare, gli piaceva sfidare la natura, prima di ammalarsi aveva un catamarano giallo. Mi ha sempre detto che mi sarebbe piaciuto uscire con lui quando le onde erano alte. Ma non sono mai salita su quel catamarano, non ce l’ho fatta a vivere con Luca quest’esperienza»
di M. A. Coscioni da La Repubblica del 7/11/2006