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Quegli occhi… Con gli occhi ti fissa. Con gli occhi ride. Piange, anche, con gli occhi. E parla, con un sistema di numeri e lettere, cui risponde con un’alzata di sopracciglio. Tutto quello che riesce a fare Andrea, ormai, è solo con gli occhi. Occhi verdi di bell’uomo trentanovenne, inchiodato al letto dalla Sla. Non muove più alcun muscolo, tranne alcuni del volto. Attraverso gli occhi, più ancora che attraverso i tubi che gli trapassano stomaco e trachea, entra dentro di lui il mondo; con gli occhi racconta agli altri il suo mondo.

Diritto alla vita. Se gli occhi di Giovanni Nuvoli, il “Welby sardo” malato anche lui di Sla, chiedono la morte, quelli di Andrea Zambon urlano la vita. Come le parole di Maria Grazia Morgese, la moglie: «Lui rivendica il diritto alla vita, non alla morte. Vuole vivere, anche così. Purché sia una vita degna di esser vissuta, purché si abbia qualche aiuto».

Sla è il nome della condanna scritta sul suo corpo. “Sclerosi laterale amiotrofica” (si veda la scheda della pagina a fianco), una malattia degenerativa del sistema nervoso che, con l’andare del tempo, paralizza tutti i muscoli del corpo. Attraverso un sondino (la Peg) mangia e prende le medicine; tramite un altro gli arriva direttamente in gola l’aria del respiratore. «Per ora non è costretto a restare collegato 24 ore su 24», spiega Maria Grazia. «Ci sono dei momenti della giornata in cui riesce a respirare autonomamente, allora lo alzo qualche oretta e lo posso portare anche a passeggio».

Occhi anche dietro. Disteso su un letto nel soggiorno della sua abitazione – una porzione di villa a schiera nella zona residenziale di Quarto d’Altino – ha uno sguardo attentissimo su quello che accade in casa. «La sua è una malattia che imprigiona il corpo», precisa subito la moglie, «ma lascia la mente lucida. Più lucida. E’ come nei non vedenti: chi non ha un senso sviluppa gli altri. Così è per la sua mente. I bambini dicono: papà ha gli occhi anche di dietro. Non gli sfugge niente. E’ lui che certe volte mi ferma e mi indica una cosa di cui non mi ero accorta».

È nel 1999 che la vita di Andrea inciampa sulla Sla. «Non sapevamo nemmeno che esistesse», spiega Maria Grazia. «E’ una malattia rara; ma oggi colpisce sempre di più. Quando si è ammalato Andrea si contava un nuovo ammalato al giorno, oggi sono tre; un tempo colpiva principalmente gli anziani, oggi anche i giovani. E le cause sono ignote».

Prima i bottoni… Andrea aveva una vita realizzata. Veneziano, aveva lavorato sulle navi da crociera, dirigendo i negozi di bordo; era poi passato a dirigere il duty free dell’Aeroporto Marco Polo. Si era sposato con Maria Grazia – di origini pugliesi, avvocato, oggi 38enne – nel 1996. Nel luglio del 1999 si manifestano i primi sintomi. Erano già nati una bambina, che allora aveva due anni, e un bambino, di uno; un’altra bambina sarebbe arrivata un anno dopo. Andrea inizia ad avere una strana debolezza muscolare e non riesce più a far bene piccole operazioni della vita quotidiana: abbottonarsi la camicia, pettinarsi. Qualche volta i muscoli si muovono da soli. Non sapeva che il male stava lavorando già da tempo: si erano “spenti” già molti motoneuroni del midollo spinale e della corteccia cerebrale. I pochi rimasti, alla fine, non ce l’hanno più fatta a lavorare da soli: ecco il motivo di queste difficoltà.

La sentenza. Il 24 settembre arriva la «sentenza», all’ospedale di Castelfranco, dove si trova un centro di riferimento veneto per questa malattia: è Sla. «E’ bastata una settimana, quando a volte ci vogliono mesi, perché non c’è un esame specifico per diagnosticarla, come accade invece nella sclerosi multipla. Si procede escludendo tutte le altre malattie neurologiche», spiega Maria Grazia. Il decorso è quanto mai soggettivo e imprevedibile. L’ex capitano del Genoa Gianluca Signorini è morto dopo neanche tre anni; per altri la prognosi è infausta dopo 5 o 10 anni (è il caso di Luca Coscioni). Il fisico britannico Stephen Hawking da molti anni convive con la Sla.

La progressione del male, per Andrea, inizialmente si mostra rapida: a ottobre non riesce più a prendere in braccio i bambini. L’anno successivo – è il 2000, l’anno dell’arrivo della famiglia a Quarto d’Altino – è costretto a lasciare il lavoro all’aeroporto: «Malgrado la sua volontà di ferro (andava a lavorare trascinandosi) è stato costretto a smettere». Ma la cicogna spicca lo stesso il volo: «La nostra terza figlia l’abbiamo avuta in corso di malattia. In fondo la speranza è che a te vada meglio che agli altri», dice Maria Grazia. Oggi i bambini hanno 9, 8 e 6 anni.

I soldi non bastano. Andrea prende dall’Inps una pensione di inabilità, che per importo non differisce dalla pensione di anzianità. Inoltre percepisce la pensione di invalidità (200 euro al mese) e l’indennità di accompagnamento (altri 400 euro). Bastano? «No», racconta Maria Grazia. «Ho mia madre che mi aiuta e grazie al cielo la casa è nostra. D’altronde io sono avvocato. Se andassi al lavoro staremmo meglio economicamente: Ma sono stata fin dall’inizio con lui e non voglio lasciarlo adesso. Lui occupa tutto il mio tempo; e poi ci sono i figli». Le pulizie in casa vengono assicurate dai fondi percepiti con il “Progetto di Vita indipendente” (fino a un tetto di 8.000 euro).

Punto di non ritorno. Il calvario prosegue. Nella primavera 2001 Andrea è costretto in carrozzina. Riesce ancora a mangiare; ma dura fino al 2003, quando comincia a perdere peso. L’unica soluzione è eseguire la Peg, un sondino che dal petto penetra direttamente nello stomaco. Non passa molto che non riesce più a parlare; e dopo ripetute polmoniti, nel dicembre 2005, non resta che eseguire la tracheotomia per la respirazione. «Siamo arrivati al punto di non ritorno», osserva la moglie. «Oltre questi due buchi non c’è più nulla. Lo stadio della malattia è avanzato».

«C’è chi sceglie diversamente», riflette Maria Grazia. «Ma chi ha voglia di vivere deve essere aiutato. E poi non c’è solo lui: ci sono anche i bambini, che non sono disabili, ma è come se lo fossero. Fino a poco tempo fa tornavano da scuola e restavano a casa. Io sono pugliese, non ho parenti qui. Lui ha la madre che non riesce a camminare, la sorella che lavora e non può essere sempre da noi… Possiamo contare solo sull’aiuto di un grande uomo, Valeriano Guarato…». A Maria Grazia viene da piangere pensando a cosa questo volontario della parrocchia fa per loro; e Andrea piange con lei.

L’aiuto di Valeriano. 53 anni, in pensione, Valeriano «quando lo chiamo corre, se ho bisogno di dormire resta lui, porta i bambini dal pediatra… E’ il mio alter ego, un uomo santo», racconta Maria Grazia. «Se non avessi avuto la malattia non avrei conosciuto Valeriano»: a dirlo è Andrea, che versa ancora lacrime di commozione. Suona al campanello dell’abitazione proprio Valeriano, che riporta a casa la figlia più piccola dalla scuola materna. Si salutano, lui e Andrea. Scherzano. Valeriano conosce a memoria il codice per comunicare e parte con una sfilza di numeri e lettere, cui Andrea risponde con le sopracciglia. Cinque minuti per dire che Valeriano ha un difetto solo: è juventino (mentre Andrea è milanista)…

«Mai un lamento». Cosa può sostenere un’esistenza così? «La fede», risponde Maria Grazia. «A volte litigando con chi sta lassù in alto… ma credo faccia parte del percorso di fede. E poi devo dire una cosa: Valeriano è un santo, ma lo è ancora di più Andrea. In otto anni non si è mai lamentato, mai una reazione fuori misura, mai nervoso, mai un lamento, un pianto, una bestemmia… Ha una tale forza di volontà che è un esempio per tutti noi. Anche in vacanza le persone mi chiedono: come fa ad essere così sereno? E poi ci sono gli amici, quelli d’infanzia, della scuola, i colleghi di lavoro… E’ una cosa straordinaria, tanto si sono attivati. Andrea era buono prima di ammalarsi, sensibile verso tutti. Forse questo suo modo di essere gli dà la forza per andare avanti. Lui non vuole morire, non ha mai chiesto di spegnere il respiratore».

«Per questo non guarisci…». «Io al posto suo non sarei come lui», confessa Valeriano. «Gli occhi gli sorridono sempre. Quando arrivo gli chiedo “come va?” e lui alza le sopracciglia per dire: “bene”». «Come fai a non arrabbiarti per quello che è successo? Avevi 31 anni…», chiede la moglie ad Andrea. «Io perdo spesso le staffe», confessa. «Non so lui come faccia. Dovrebbe avercela con il mondo intero. Per questo il Signore non ti fa guarire, gli dico certe volte: se la prendi così bene, penserà, tieniti questa croce…». Ma bisogna conoscerla, Maria Grazia: è di una pazienza e di una tenerezza verso il marito che sembrano senza limiti. E infatti poi aggiunge: «No, io non penso che sia una “punizione”. Forse questo peso è stato dato da portare a lui perché riesce a sopportarlo. Forse anche per vedere quanto di buono c’è attorno a noi: e ce n’è tanto».

Una cosa la preoccupa: i bambini. «Mi faccio sensi di colpa: vivono bene o male?», si chiede la madre. «Ma le insegnanti, attentissime all’aspetto socio-psicologico dei bambini, mi dicono che sono tutti e tre sereni. Nonostante tutto c’è armonia in casa: festeggiamo il Natale, i compleanni…». A loro modo i piccoli aiutano in casa, la più grande in particolare ha imparato ad accudire il padre per alcune necessità. «Non mi pesa», dice, «per papà lo faccio volentieri».

Questioni di amore. E di bambini. Un’altra cosa dà la forza a Maria Grazia, in questa situazione che coinvolge il marito 39enne. Lo dice con pudore: «L’amore». Ride e guarda Andrea: «Non è certo per senso del dovere che faccio quello che faccio». Andrea ricambia: a dargli la forza è la moglie, Maria Grazia. «A volte crollo, mi innervosisco, mi arrabbio…», confida lei. «Poi guardo lui che non si arrabbia mai. E’ lui che mi dà la forza. Quando vorrei mollare mi sfogo: non ce la faccio più, sono esaurita… E vedo lui che non si arrabbia, non si offende, non mi fa il muso. Allora mi passa». E come fa Andrea a non crollare, ad avere tutta questa forza? Con lo sguardo indica le grandi foto appese alle pareti: «I bambini», traduce Valeriano. «I bambini mi danno la forza».

«Non si può giudicare». «Per questo non mi sento di giudicare gli altri», dice Maria Grazia, «quelli che desiderano morire. Bisogna starci, in una situazione, per capire. Se ci sono solo marito e moglie, se non hanno l’appoggio di persone, di amici, può non esserci uno scopo nella vita: e allora si vorrebbe chiuderla lì. Quando c’è stato il caso di Welby ho chiesto ad Andrea cosa ne pensava. Lui ha detto: rispetto la scelta di queste persone, ma io non te lo chiederei mai di morire… Meno male, ho pensato. Per un fatto di coscienza, di fede; ma anche per egoismo: se la scienza fa passi da gigante, metti che si scopra una medicina miracolosa e c’è la possibilità di guarire, come mi sentirei io allora? Comunque lui non mi ha mai chiesto nulla di simile, neanche adesso che è arrivato al top del bisogno di assistenza, con la Peg e la tracheotomia. Quando ancora camminava, una volta gli ho detto: Se fossi stata in te avrei preferito entrare in coma, non avere la lucidità mentale. Lui mi ha risposto: io no, altrimenti non potrei vedere i bambini crescere. Adora i bambini: avremmo fatto una squadra di calcio se non ci fosse stata la malattia…».

Ruolo in famiglia. Anche se inchiodato a un letto, Andrea non ha perso il suo ruolo in famiglia e si vede. Si fa amare, ha autorevolezza. In fondo non si chiede questo a un marito, a un padre? Di mostrarsi forte, di dare sicurezza, davanti alle tempeste della vita. Così è Andrea, malato di Sla, che sorride e dà coraggio solo muovendo i suoi occhi.

di Paolo Fusco da Gente Veneta n.12 del 2007

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