a cura di Paola Cerutti
Queste informazioni sono state tratte dagli opuscoli “Vivere con la SLA” dell’associazione AISLA ONLUS.
La fase iniziale
Il primo impatto con la malattia si accompagna generalmente nel paziente a vissuti di angoscia, paura, rabbia, tristezza e senso di isolamento, benché le reazioni affettive possano spesso essere differenti da una persona all’altra.
Sovente in fase iniziale si possono individuare due atteggiamenti opposti: da una parte può prevalere un atteggiamento di rifiuto, incredulità o distanza rispetto a ciò che sta accadendo, come se non fosse vero. All’opposto, altri soggetti tendono a calarsi completamente in questa realtà fino al punto di anticipare vissuti e reazioni emozionali legati alle limitazioni future e all’evoluzione della malattia.
Le risposte emozionali sono comunque sempre strettamente legate all’immagine e alla valutazione che ognuno possiede della propria condizione di malattia, sulla base delle informazioni acquisite. Il modo di reagire non solo dipende dall’abituale stile di vita nell’affrontare difficoltà e problemi, dalle caratteristiche di personalità e dall’atteggiamento generale verso il mondo (pessimista, realista, ottimista), ma anche dall’elaborazione e valutazione delle informazioni ricevute sulla malattia. Se poi tali informazioni sono comunicate al paziente da altre persone, anche la modalità con cui ciò avviene influenza le immediate reazioni e l’elaborazione conseguente.
Prendere atto e confrontarsi con difficoltà e limitazioni comporta sempre inevitabili disagi emozionali e spesso per molto tempo la persona malata e i suoi familiari si dibattono tra domande continue ed estenuanti che si ripetono: “Com’è possibile che tutto questo stia capitando a me?”, “Perché proprio questa malattia, mai sentita né vista, così subdola e assurda, di cui non si conoscono cause né cure almeno per bloccarla?” “Perché proprio a me? Che cosa ho mai fatto di male per meritarmi questo?” Fino a quando tali domande permangono prevalgono atteggiamenti di rifiuto e incredulità, di sconfitta e passività. Si tratta di reazioni comprensibili ma assolutamente improduttive se protratte nel tempo, in quanto non aiutano a stare meglio e, anzi, tendono a lasciare sempre più spazio alla malattia incrementando la sofferenza e il disagio. In questo modo, infatti, non si fa nulla per vivere la quotidianità, per attuare tutto ciò che si è in grado di fare, che aiuta a vivere e a stare meglio con chi ci circonda e ci ama.
È importante allora provare a trasformare la domanda “Perché a me?” in “Che cosa posso fare adesso?” È un passaggio che richiede tempo, energia e attaccamento alla vita, in un’ottica di necessario cambiamento, ma anche di possibilismo.
È dunque possibile, benché sia molto faticoso, arrivare a convivere con la malattia, adattandosi ad essa e, in alcuni casi, addirittura accettandola con serenità. Serenità non significa assenza di sofferenza, di rabbia, tristezza, sconforto e paura, reazioni comunque presenti e inevitabili; significa invece conservare la voglia di vivere e di fare tutto ciò che è possibile realizzare, riscoprire il proprio valore in ciò che si fa e in ciò che si è, nella propria forza affettiva, nelle proprie capacità decisionali e organizzative, nell’essere punto di riferimento per gli altri, nella propria dolcezza e comprensione, nella propria tenacia
e intraprendenza, nella propria vivacità intellettiva, nella personale creatività e nella propria spiritualità.
Raggiungere una serena accettazione della malattia rappresenta una conquista molto impegnativa da parte di coloro che, superate le fasi iniziali di incredulità prima e di grande tristezza e/o rabbia dopo, iniziano un nuovo cammino, proiettati sul presente; significa vivere giorno per giorno, attimo per attimo, limitare i progetti a brevissimi periodi e affrontare di volta in volta le difficoltà insieme alle persone che si amano.
Pur confrontandosi con reazioni di ansia, paura, tristezza, rabbia, è possibile comprendere il significato e l’inevitabilità delle stesse, limitarle e confinarle a momenti particolari, permettendo lo spostamento dell’attenzione su ciò che si sente e si desidera in un dato momento, rispetto alle capacità in atto.
La conoscenza
La conoscenza della patologia, in relazione alla sua evoluzione e ai disturbi ad essa associati, risulta fortemente influenzata dall’elaborazione personale e dalla reattività emotiva individuale.
Le informazioni ottenute sono cioè organizzate ed elaborate sulla base della personalità del paziente, del suo spontaneo atteggiamento rispetto agli eventi nuovi, imprevisti e negativi e in base all’eventuale presenza di meccanismi di difesa, di negazione o sottostima.
L’informazione così elaborata costituisce il grado di consapevolezza di malattia che, variando da persona a persona, si modifica nel tempo.
Per quanto la conoscenza rispetto alla SLA avvenga con tempi, modalità e vissuti diversi per ogni singolo individuo, la presa di coscienza di tale realtà e dello sconvolgimento che la malattia comporta nella vita di ogni famiglia risulta sempre dolorosa, eppure inevitabile e necessaria. Questa fase di elaborazione può essere spesso più faticosa del previsto, perché prolungata nel tempo. Purtroppo la consapevolezza a volte è più difficile del “non sapere”. È tuttavia giusto conoscere in anticipo ciò cui si può andare incontro perché dopo il trauma iniziale si potrà assimilare il tutto, affrontando preparati e più forti le difficoltà future.
Sapere in anticipo, inoltre, può risultare utile per poter chiedere e ottenere tutti gli aiuti possibili, al momento opportuno, per affrontare e superare gli inevitabili problemi.
La comunicazione
Le enormi differenze esistenti tra un soggetto e l’altro e i diversi modi di affrontare e reagire alle situazioni difficili della vita, e in particolare la condizione di malattia, fanno sì che non esista una regola assoluta e generale rispetto alla gestione dell’informazione, che deve quindi essere personalizzata.
L’unica “regola” riguarda la veridicità dell’informazione stessa: preferibilmente graduale, adattata alle diverse fasi della malattia e al singolo individuo; magari semplificata e ridotta, l’informazione deve comunque essere generalmente realistica, sempre comunque comprensibile e veritiera.
Occorre dire inoltre che in certi casi, per altro meno rari di quanto si potrebbe a prima vista pensare, anche il diritto del paziente di non sapere, se espressamente esplicitato, deve essere rispettato.
Tra paziente e familiare
Queste indicazioni possono risultare utili anche ai familiari, spesso i primi ad essere informati. Essi, che devono poi quotidianamente gestire le domande e le richieste del malato in relazione alle difficoltà presenti e future, nello stesso tempo devono supportarlo e sostenerlo moralmente trovandosi così molto spesso in conflitto, temendo reazioni disastrose e/o pericolose da parte del proprio caro.
Nell’intento di “proteggerlo”, nei familiari ricorre sovente la tendenza a nascondergli la verità, fornendo informazioni frammentarie o persino opposte alla realtà e illusorie. Certamente è molto difficile disilludere aspettative di guarigione o non confermare ridimensionamenti delle limitazioni in atto; tuttavia, se inizialmente questo atteggiamento sembra far bene emotivamente al malato, di fatto gli impedisce di conoscere il problema, di affrontarlo utilizzando le personali strategie di attacco alle difficoltà, di accettare aiuti e proposte terapeutiche che, in assenza di un obiettivo riconoscimento del problema, corrono il rischio di essere invece rifiutati.
Contrariamente a quanto si creda, inoltre, per molte persone, soprattutto quelle con uno stile rivolto al controllo, essere informati e in qualche modo poter prevedere ciò che sta accadendo riduce l’ansia di sentirsi in balia degli eventi senza poter fare nulla per dominarli o comunque senza poter provare a gestirli.
Parlare della malattia dunque si può e, anzi, molto spesso si deve. È inoltre importante anche il confronto tra familiari, rispetto a ciò che ognuno vive, sente, pensa, spera e teme. Un’altra possibile difficoltà nella comunicazione verbale e non verbale tra il malato e i familiari a lui vicini è, infatti, la convinzione di dovergli nascondere le proprie preoccupazioni relative alla malattia, al futuro e il proprio disagio emozionale. Tale atteggiamento, oltre a comportare un enorme sforzo emotivo da parte del familiare, può inibire il bisogno di espressione del proprio disagio anche da parte del malato che, sfogandosi, teme di sentirsi ulteriormente diverso e di peso. Il malato può allora sentirsi incompreso e isolato rispetto agli altri, che sembrano non capire ciò che egli prova e che gli sta accadendo. Senza arrivare a riversare sul paziente il proprio disagio, si suggerisce quindi un atteggiamento spontaneo ed empatico, in modo che quando espressioni di preoccupazioni e reazioni di pianto, di tristezza o di rabbia prendono il sopravvento – come è naturale che accada – queste siano condivise da tutta la famiglia; esprimere le diverse emozioni e comprendere le reciproche reazioni favorisce infatti la coesione e la convivenza.
Certamente non sempre e non in tutti i casi sono possibili una reciproca apertura e condivisione: se queste vanno senz’altro favorite all’interno di famiglie in cui una chiara e franca comunicazione ha sempre caratterizzato i rapporti, anche in situazioni meno aperte possono essere di volta in volta considerate.
In questi casi, inoltre, un eventuale sfogo o la perditadi controllo non va vista come un grave errore, ma una reazione naturale in chiunque, a maggior ragione nel paziente che vive in prima persona tale disagio.
Per quanto riguarda la comunicazione tra malato e familiare in relazione alla malattia e alla sua evoluzione, le difficoltà esistono ma possono essere affrontate con serenità e con minor difficoltà rispetto a quanto si potrebbe pensare.
Un aiuto per capire se il paziente è pronto a sapere: chi spesso chiede informazioni, pone domande chiare, mirate e insistenti lo fa perché è pronto a sapere, ha bisogno di sapere per poter controllare, anticipare e gestire gli eventi, per quanto possibile.
Coloro che hanno bisogno di sapere per affrontare direttamente i problemi, di fronte ad informazioni scarse e frammentarie tendono a sviluppare reazioni di ansia, che si attenuano invece nel momento in cui vengono adeguatamente informati ottenendo precise risposte alle loro domande.
Chi invece non è pronto ad accettare la realtà della malattia, le sue difficoltà e le conseguenze che comporta adotta un atteggiamento di elusione, non ricerca informazioni per lui in quel momento troppo dolorose o troppo scoraggianti. In questi casi si attivano meccanismi di difesa inconsapevoli che portano la persona (malato o familiare) a negare o ridimensionare la realtà.
Tali forme di difesa non vanno mai combattute, per non ottenere l’effetto esattamente contrario, quello cioè di rinforzarle, ma vanno rispettate dando modo alla persona di comprendere, rafforzarsi e adattarsi nel tempo. È comunque importante, d’altro canto, non assecondare talune convinzioni, sostenute dai meccanismi suddetti, non dare false informazioni e non sostenere false aspettative. Bisogna cioè aiutare gradualmente la persona a riconoscere i limiti e le difficoltà presenti, spiegando correttamente che sono conseguenza della malattia.
Occorrerà, in altri termini:
- non evitare a priori di parlare della malattia, della sua progressione alle fasi più avanzate;
- prepararsi ad affrontare tali temi;
- imparare a gestire il silenzio e, se necessario, a dire “non so” (non sempre possiamo avere la risposta giusta al momento giusto);
- prendere tempo piuttosto che dare risposte false, scorrette, banalizzando o sviando l’argomento come se tutto fosse irreale.
La consapevolezza di malattia costituisce un delicato percorso in evoluzione, per questo andrà affrontata con gradualità e con attenzione nel rispetto della verità, ma anche delle caratteristiche emotive e cognitive della persona. L’invito quindi è anche quello di rispondere alle domande senza anticipare informazioni non richieste e di ricondurre sempre la realtà della malattia alla diversità esistente tra una persona e l’altra: è fondamentale in proposito lasciare sempre aperta la porta della speranza, in particolare nella ricerca o, in fase iniziale, nell’eventualità di un errore diagnostico o nella specificità e unicità della forma in questione (“un caso speciale”).
Nella speranza che qualcosa possa accadere bisogna comunque imparare a convivere con la malattia e con le limitazioni che si susseguono, nella ricerca costante di un equilibrio tra ciò che “sono, sento, so” e ciò che “posso ancora fare, come lo posso fare”.
Il vissuto di perdita e le conseguenti reazioni emotive
Se questa malattia di fatto non prevede dolore fisico, sicuramente si accompagna a un’inevitabile sofferenza psicologica dovuta alla perdita graduale delle proprie capacità motorie, della propria autonomia e indipendenza. Sempre, quando si perde qualcosa e qualcuno per noi importante, si scatena una reazione emozionale di tipo depressivo chiamata “lutto”.
Quali che siano le modalità d’acquisizione delle informazioni e l’elaborazione conoscitiva ed emozionale delle stesse, i malati e i loro familiari normalmente si confrontano con risposte emozionali e comportamentali che passano attraverso un percorso caratterizzato da cinque stadi:
- negazione e isolamento;
- rabbia;
- contrattazione;
- depressione;
- accettazione.
Queste fasi possono manifestarsi con tempi e sequenze diverse in base alle caratteristiche della persona. Vi sono poi periodi in cui prevale una specifica risposta emozionale con tempi che variano da settimane a mesi. Tali reazioni, anche se in forma, intensità e durata variabili, si possono riscontrare nelle diverse fasi evolutive della malattia, in quanto normali conseguenze della perdita.
Accanto a questo generale atteggiamento reattivo alla progressione dei sintomi, quotidianamente ci si confronta con momentanee reazioni emozionali indipendenti dal vissuto di malattia.
Il quotidiano confronto con limitazioni, difficoltà e quindi cambiamenti nei modi e nei tempi, nelle aspettative e nei risultati rispetto all’abituale modo di fare, all’interazione che la persona ha con il suo ambiente (fisico e sociale) porta all’insorgere di rabbia, paura, ansia, tristezza e sconforto, reazioni inevitabili, ma spesso utili e funzionali all’adattamento (se non troppo elevate e prolungate nel tempo): per questo è bene vengano riconosciute e accettate come tali, che vengano esternate attraverso l’espressione emozionale (pianto, lamenti, parole, movimenti bruschi, espressioni del viso, momentanea chiusura comunicativa).
La forza delle emozioni (che per loro natura esistono per essere espresse, in quanto servono a mettersi in relazione con il mondo circostante), il valore comunicativo e interattivo delle stesse salgono in primo piano con questa malattia. Infatti, anche volendo, risulta estremamente difficile se non impossibile, in certi casi, nasconderle e contenerle.
Diversa è la condizione in cui le reazioni momentaneamente reattive a specifiche limitazioni e difficoltà sono sopraffatte da un profondo disagio emozionale caratterizzato da prolungate, intense e amplificate reazioni di rabbia, tristezza, angoscia, da chiusura su se stessi ed elusione di tutto ciò che riguarda l’ambiente circostante.
Si tratta di reazioni sostenute, per lo più, da un profondo rifiuto della malattia, da una condizione di totale arresa e di distacco dalla realtà, vissuta solo nei suoi aspetti di perdita, limitazione e quindi inaccettabile.
A volte tale profondo disagio è reattivo all’impatto con la malattia e conseguente alla caduta dei propri progetti, desideri e delle proprie aspettative; anche se possono manifestarsi per periodi prolungati, possono poi attenuarsi nel tempo se le capacità di adattamento (spesso sorprendenti nell’essere umano) riescono ad emergere.
A volte, invece, un disagio così profondo risulta amplificato dalla malattia ma trova radici più profonde in condizioni di fragilità psichica precedente l’insorgenza della malattia stessa. Si tratta di personalità che già in passato hanno avuto problemi di depressione o di disturbi psico-comportamentali in presenza di eventi stressanti.
Rifiutare passivamente la malattia significa in ultima analisi darle più spazio, più forza e potere rispetto a quello che già possiede, significa cioè permetterle di prendere il sopravvento anche dove sono presenti potenzialità (abilità cognitive, relazionali ed emotive) portando a una sofferenza crescente e insopportabile e influenzando negativamente l’andamento stesso della malattia.
Accettazione e convivenza
Vivere con la malattia significa vivere con le limitazioni e adattarsi ad essa; per ottenere questo è però necessario accettare gli ausili e le terapie che permettono e migliorano l’adattamento all’ambiente circostante e alla vita di relazione.
Ma “accettazione” che cosa significa? L’accettazione può essere passiva quando domina la rassegnazione, quando ci si sente completamente sconfitti e si rinuncia a reagire, quando cioè si è costretti ad accettare la malattia ma prende il sopravvento un atteggiamento di totale rifiuto della propria condizione.
In alcune persone può prevalere invece l’accettazione attiva di coloro che, pur riconoscendo la presenza della malattia, rifiutano di sentirsi malati e si impegnano cercando di mantenere il più possibile il proprio stile di vita (chi punta sull’attività lavorativa, chi sul coinvolgimento interpersonale, chi sulla conservazione della propria autonomia). L’accettazione attiva permette così un buon adattamento alle proposte di aiuto (terapia farmacologica, chinesiterapia, psicoterapia, ausili e strumenti specifici), volte a una migliore qualità della vita quotidiana, e rinforza al massimo le capacità disponibili di ognuno. L’accettazione della malattia in questo contesto viene quindi intesa non come una necessità, bensì come una conquista, il primo passo per iniziare un percorso riabilitativo che aiuti a vivere con minori difficoltà, che migliori autonomia e la qualità di vita.
Accettare la SLA significa non solo vivere con la SLA ma anche dare spazio (con impegno, determinazione e fatica) alla vita cognitiva, affettiva ed emotiva.
A proposito di quest’ultima vorremmo raccontare un episodio vissuto da una persona a noi molto cara, un paziente che seguivamo da tempo, durante uno dei periodici ricoveri presso il nostro centro. Si tratta di un’esperienza in cui si può osservare il passaggio da un’accettazione forzata a un’accettazione serena della malattia.
Le relazioni sociali
Un altro punto chiave che rafforza la convivenza con la malattia e migliora la qualità della vita riguarda le relazioni sociali. Il mantenimento di rapporti sociali è legato a due aspetti fondamentali, alla qualità dei rapporti sociali pregressi la malattia, innanzi tutto, quindi alla forza di superare il disagio e la vergogna iniziali spesso provati nel rapportarsi con le altre persone.
La malattia – è stato ribadito – comporta enormi cambiamenti e anche una naturale selezione delle amicizie. Di solito si riducono anche di molto, ma non si perdono completamente; se questo avviene è per lo più dovuto a un atteggiamento di chiusura, comprensibile ma nocivo, da parte del malato e magari anche dei suoi familiari.
Certamente è assai difficile presentarsi agli altri in difficoltà, limitati, cambiati nei movimenti, nel parlare e nell’agire. La situazione migliora sensibilmente se però si continua ad incontrarsi con persone amiche, che con il tempo supereranno il loro iniziale imbarazzo, spesso forte e associato ad un senso di inadeguatezza (che allontana alcune persone, ma non tutti). Può sembrare strano, dunque, ma inizialmente è proprio il paziente che deve aiutare gli amici e i conoscenti a superare il disagio, le paure e il senso di inadeguatezza.
Mantenere e rinforzare i contatti con amici, parenti, colleghi, conoscenti ecc. è estremamente importante perché migliora la qualità della vita. L’essere umano è per sua intrinseca natura un essere sociale e necessita quindi di stimoli e legami diversificati, non solo di quelli affettivi.
Chiaramente, se i rapporti sociali non sono stati creati e mantenuti nel tempo, già prima dell’insorgenza della malattia, allora diventa molto più difficile crearli dopo. È sorprendente comunque osservare come esistano davvero tante persone che hanno bisogno di dare e ricevere amicizia! Basta essere ben disposti per accorgersi che accanto a coloro che fuggono – non dalla persona, ma dalla malattia (per la paura che il confronto con essa crea) – esistono tante persone pronte a dare.
Si può così scoprire che, al posto di iniziali sentimenti di “pena” e disagio, taluni possono provare un sentimento speciale, la “compassione”, che nel suo significato originale significa “soffrire con”, condividere la sofferenza, quindi avvicinarsi al malato e comprendere molto di più ciò che prova.
La vera compassione è sicuramente per pochi, per coloro cioè, familiari e/o amici, che sono fisicamente, emotivamente e affettivamente vicini al paziente.
Nella vicinanza e condivisione è possibile vivere autentiche relazioni che arricchiscono e che permettono supporto, comprensione e un maggiore interesse per l’ambiente circostante.
Diversi studi infatti sottolineano che le persone affette da malattia cronica hanno una buona vita sociale, sono più adattate ed evidenziano una migliore qualità di vita.
Un impegno sempre rinnovato
Accettazione significa dare spazio alla vita cognitiva, affettiva e relazionale nonostante le limitazioni presenti. Certamente, accettare attivamente la SLA richiede un impegno che va costantemente rinnovato; si tratta di una conquista quotidiana assai impegnativa, ma possibile.
In linea con quanto detto possiamo fare alcune considerazioni relative alla capacità di alcune persone malate di vivere con serenità la malattia. Queste persone, anche se molto diverse tra loro, evidenziano alcune caratteristiche personali comuni, insieme a particolari contesti familiari e sociali.
Le condizioni che favoriscono una serena accettazione sono:
- uno stile mentale caratterizzato da flessibilità, ottimismo e tenacia;
- un’adeguata consapevolezza rispetto alla malattia;
- disponibilità alla collaborazione;
- un ruolo decisionale e organizzativo;
- interessi diversificati (in particolare interessi intellettuali);
- la fede religiosa;
- la fiducia nella scienza e nell’uomo;
- buone relazioni affettive;
- buone relazioni sociali;
- forti motivazioni legate alla vita affettiva e cognitiva;
- la speranza che qualcosa di positivo possa comunque accadere (guarire, essere curati nel rispetto della propria dignità ecc.).
Coloro che raggiungono una serena accettazione, o comunque vivono periodi di serenità, oltre ad esprimere un coinvolgimento emozionale positivo verso eventi quotidiani piacevoli e interessanti evidenziano un elevato coinvolgimento verso l’ambiente circostante. Si tratta di persone attive e curiose mentalmente, che amano leggere, informarsi ed hanno interessi culturali diversificati, che desiderano essere sempre aggiornati sugli eventi quotidiani di casa e sulla vita di coloro che li circondano e li seguono, per poter dare consigli e suggerimenti, esprimere il proprio punto di vista e, se necessario, ricercare soluzioni nonché prendere decisioni sia su piccole cose sia su questioni importanti, non solo per ciò che riguarda la propria malattia ma anche per tutto ciò che li riguarda nel contesto familiare, lavorativo e sociale.
Vivere con serena accettazione significa anche dare spazio all’organizzazione delle attività quotidiane (aiutare per esempio chi è accanto a programmare la giornata, a ricordare con ordine e criterio le numerose cose da fare).
Ricercare soluzioni per quotidiani problemi o difficoltà: è consigliabile non escludere il paziente dai problemi quotidiani in modo che anch’esso si senta coinvolto e dia se possibile il proprio contributo. La persona con SLA che accetta la propria condizione sa che può e talvolta deve dare supporto a coloro che lo assistono, incoraggiarli, riconoscere e apprezzare ciò che fanno, se necessario insistere perché trovino qualche piccolo spazio personale di riposo e di svago.
Vivere con serenità significa infine riuscire a coinvolgersi emotivamente rispetto agli eventi quotidiani, gioire, arrabbiarsi, sognare, piangere, preoccuparsi, intuire, ironizzare, temere, impegnarsi, discutere, attendere, creare, sperare: vivere!
Dipendenza e assistenza
Accettare la dipendenza da un’altra persona è il passo più impegnativo e in assoluto più difficile.
Per molte persone malate risulta difficile accettare l’aiuto degli altri nelle attività quotidiane. Molti arrivano ad accettare l’aiuto di ausili, a rinunciare a numerose attività precedentemente svolte con passione e interesse, ma non la dipendenza dagli altri.
In particolare, spesso risulta molto difficile per il paziente, e a volte ancora di più per il familiare, accettare l’aiuto di persone esterne all’ambito familiare.
L’imbarazzo, il disagio e la vergogna possono prendere il sopravvento, ma il bisogno di aiuto con il progredire della malattia diventa inevitabile. L’accettazione di altre figure assistenziali oltre al familiare deve quindi essere vista come momento inevitabile, comunque più agevole se pianificata per tempo e con gradualità: il paziente deve avere il tempo di adattarsi, accettando cure personali da estranei, superando o comunque attenuando sentimenti di umiliazione, vergogna, inadeguatezza, fonti di reazioni di rabbia, tristezza e sconforto.
Il caregiver
Il familiare che si prende cura del malato (caregiver) potrà sentirsi totalmente impreparato e frequentemente sopraffatto dall’impatto della malattia e dal conseguente ruolo di assistenza e supporto che lo coinvolge. Si scontrerà quotidianamente con forti emozioni, drastici cambiamenti nelle sue relazioni sociali e familiari, con richieste di impegno fisico notevoli. Queste richieste aumenteranno, così come il suo amore per la persona che vive con la SLA. Sarà impegnato 24 ore al giorno e, se spesso sentirà di non farcela più, dovrà ricordarsi che si tratta di una sensazione assolutamente normale in queste situazioni. Ma poiché il rischio di andare incontro a disturbi psicofisici e depressione e inoltre di ridurre la qualità dell’assistenza diventa decisamente alto è indispensabile avvalersi di un supporti e di aiuti.
Domandare per sapere
Per prima cosa è importante, con l’aiuto di medici ed esperti sanitari, ricercare chiare informazioni riguardanti la malattia e la sua evoluzione, i trattamenti sintomatici, gli ausili, consigli generali utili nell’approccio al malato ed in particolare all’assistenza.
Esistono ausili, supporti e interventi che possono semplificare o comunque ridurre il carico fisico. Non bisogna temere di essere esigenti o lamentosi: meglio una domanda in più (anche se banale o se già formulata) che una in meno.
Avere cura di sé
Per il caregiver è fondamentale costringersi a rispettare la propria salute e ad avere qualche momento per sé di distacco, per scaricarsi e distrarsi.
Una persona, chiunque essa sia, che viva una condizione in cui i cambiamenti consistenti e il carico assistenziale prendono spesso il sopravvento, non può non stancarsi! È quindi necessario,anzi indispensabile, avere un minimo di cura per se stessi onde evitare il rischio di crollare fisicamente e/o psicologicamente e, di conseguenza, di non poter più assicurare al paziente
quelle cure e quelle attenzioni che solo il familiare può dare.
Per quanto bravo, attento e disponibile, ogni caregiver deve ricordarsi, inoltre, che esistono altre persone capaci di assistere e di svolgere alcune delle attività quotidiane necessarie; anche se non sono veloci e attenti come si vorrebbe, possono sempre imparare e migliorare l’assistenza.
In effetti, raramente un assistente, per quanto bravo, esperto, attento e persino simpatico potrà raggiungere la qualità di cura carica di affetto che è propria del familiare. Ma poiché questa speciale cura, assistenza e vicinanza propria del familiare può risultare fortemente compromessa nel tempo dalla stanchezza psicofisica sempre in agguato, da reazioni emozionali esagerate e scarsamente controllate e da possibili disturbi psicofisici legati allo stress prolungato, bisogna richiedere aiuto, al fine di mantenere nel tempo la propria energia psicofisica.
Chiedere per avere
Molto presto il familiare si accorge che spesso le persone non comprendono il peso che porta; per questo non deve aspettarsi che gli “altri” si propongano ma deve saper chiedere aiuto in modo chiaro, diretto e specifico!
Non chiedere aiuto significa alla fine fare del male a se stessi e a colui che si sta curando.
Ricercare aiuto ed imparare a delegare non sono atteggiamenti disdicevoli, ma necessari, il cui scopo è trovare spazio e tempo, anche minimo, per sé! Chiedere, inoltre, non è pretendere, ma è un diritto. Quando si chiede per avere, però, bisogna anche essere pronti ad un rifiuto, più o meno elegante, sincero e chiaro (anche rispondere: “No, non me la sento, non mi è possibile” è un diritto e non bisogna dimenticarlo!).
Più le richieste di aiuto sono dettagliate e specifiche, e magari valutate con chi ci sta accanto, più è facile identificare il tipo di aiuto che ognuno è in grado di dare, rendendosi comunque utile.
Anche la rotazione dei familiari nel ruolo di caregiver, quando possibile, è un’importante strategia di aiuto e può evitare che la relazione di dipendenza tra malato e familiare diventi simbiotica a tal punto da rendere difficile l’inserimento di un’altra persona che assista il malato. Poiché accettare l’aiuto di altre figure risulta spesso difficile per il paziente, e talvolta anche per il familiare, è bene non attendere troppo nel ricercare una figura assistenziale adeguata.
Più si aspetta e più risulterà difficile per chiunque inserirsi nella relazione simbiotica creatasi e superare i vissuti di disagio e imbarazzo relative alle cure personali necessarie. Infatti diventerà difficile accettare una persona che non sappia esattamente come muoversi e che non conosca la persona malata e le sue esigenze attuali. Se si aspetta troppo tempo a ricercare una persona adatta le esigenze saranno talmente tante e la stanchezza così pregnante che un inserimento lento e graduale, così come dovrebbe essere, diventerà estremamente difficile e le cose si complicheranno ulteriormente. Vanno poi considerate le obiettive difficoltà nel trovare persone adatte, nonché il fatto che spesso tali figure assistenziali comportano un costo economico non banale (l’assistenza domiciliare disponibile sul territorio costituisce uno dei tasti più penosi della sanità a livello nazionale, escluse poche locali eccezioni). È necessario quindi iniziare per tempo a chiedere, informarsi, considerare le possibili strade per arrivare ad avere, quando davvero necessario, un aiuto concreto e continuativo.
Programmare e delegare
La giornata di lavoro di un caregiver è carica di impegni e richieste, oltre che di eventuali imprevisti. Per riuscire ad avere un discreto controllo su tutto ciò è indispensabile un’attenta organizzazione e programmazione, meglio se scritta, con l’indicazione precisa di impegni e priorità, nonché delle ore in cui si sa di poter contare sulla presenza di qualcuno. Con tale persona si concorderà la sua disponibilità e il tipo di aiuto. Saranno questi i momenti che il caregiver potrà dedicare a se stesso: dovrà evitare di restare in casa e di essere quindi costantemente “chiamato” o, ancora, potrà decidere di riposare e, senza alcuno scrupolo, in tal caso dovrà comunicare le sue intenzioni.
Coinvolgere il malato nella vita quotidiana
Poiché le capacità mentali della persona con SLA non vengono compromesse il regiver può discutere e ricercare soluzioni insieme a lei, trattandola con normalità. Questa collaborazione mantiene sana la relazione. Il paziente perde le abilità fisiche motorie, ma ciò non gli impedisce di mantenere, anzi di ampliare il suo ruolo decisionale e organizzativo in ambito familiare, dove spesso “la mente” è il paziente e “il braccio” il familiare. In tal modo la persona malata può apportare il suo contributo e un supporto all’interno della famiglia riducendo il senso di “peso” che molto spesso avverte.
Nelle migliori delle situazioni la persona con SLA può, con gli ausili adatti, nelle diverse fasi della malattia, essere un’importante fonte di sostegno emozionale per il familiare. Non è affatto raro incontrare coppie nella quali la forza psicologica associata alla carica di vitalità, coraggio, inventiva e creatività del paziente supera di molto quella del caregiver che lo assiste.
Riassumendo, è necessario favorire e rafforzare nel paziente:
- il suo coinvolgimento nell’organizzazione e programmazione delle attività quotidiane;
- le sue abilità residue;
- le sue capacità decisionali.
Sentirsi impotenti e colpevoli
L’ineluttabile avanzamento e progressione della malattia da una parte, le difficoltà di assistenza, la presenza di forti e talvolta incontrollabili reazioni emozionali, il cambiamento di ruoli e l’aumento della responsabilità conseguente in ambito familiare dall’altra, comportano prima o poi lo sviluppo di sensazioni di impotenza e di inadeguatezza rispetto alla situazione in atto.
Il familiare, per quanto si impegni nel seguire il proprio caro, ha spesso difficoltà a riconoscere l’efficacia del suo intervento. Può prevalere in lui la sensazione che qualsiasi cosa venga fatta non porti ad alcun risultato.
In realtà i risultati ci sono, ma non vanno ricercati nel miglioramento della malattia, ma nel miglioramento della qualità della vita, nonostante le limitazioni in atto e la loro progressione. È indispensabile entrare nell’ottica per la quale tutto ciò che viene fatto con impegno, competenza e amore dà sempre frutti: l’assenza di queste cure e premure porterebbe il malato a veder peggiorare drasticamente le proprie condizioni.
Prevenire, contenere, ridurre il disagio e le difficoltà vuol dire alleggerire il carico che la malattia comporta e quindi migliorare la qualità della vita. Questo è un obiettivo possibile e raggiungibile; i risultati si vedono, se solo si entra nell’ottica di curare apprezzando un miglioramento momentaneo e il contenimento delle difficoltà.
L’acquisizione di maggiori responsabilità, magari associata alla tendenza ad assumersene troppe, nonché alla pretesa di dover essere sempre e comunque in grado di affrontare tale carico, anche quando non sussistano le condizioni oggettive (assumersi responsabilità non significa possedere automaticamente tutte le abilità richieste, improvvisarsi in ambiti mai praticati, pretendere di essere sempre perfettamente efficienti e di controllare la situazione), porta a confrontarsi con reazioni di rabbia, sconforto, senso di colpa e di inadeguatezza.
Prendere coscienza delle reali possibilità personali e dei propri limiti, rendersi conto che “provare” non comporta necessariamente “riuscire”, può aiutare il familiare a ridurre e controllare il senso di colpa, spesso in agguato, e contenere così il proprio disagio emozionale salvaguardando, nonostante la stanchezza psicofisica, il proprio valore e la propria autostima.
Il supporto psicologico
L’impatto traumatico che la SLA comporta e la sofferenza emozionale che ne deriva evidenziano l’importanza di un approccio psicologico alla SLA che integri gli obiettivi di un intervento multidisciplinare mirato fondamentalmente a migliorare la qualità della vita in rapporto ai diversi stadi evolutivi della malattia.
Gli obiettivi di un intervento psicologico sono in prima battuta quelli di contenere il disagio emozionale dovuto alle limitazioni comportamentali, di favorire per quanto possibile la convivenza con la malattia e un’adeguata compliance ai trattamenti previsti, che a loro volta tendono a sviluppare un maggior adattamento alle difficoltà presenti.
L’intervento psicologico richiede una presa in carico globale del paziente e della sua famiglia, in quanto la malattia coinvolge e sconvolge tutti i membri del nucleo familiare. Inoltre, come spesso evidenziato dalla letteratura nel caso di diverse malattie croniche, l’adattamento emozionale del paziente risulta fortemente influenzato dalle risposte emozionali e comportamentali di chi si prende cura di lui.
In particolari situazioni un supporto psicologico diventa indispensabile per il paziente e/o per il familiare. Si tratta di condizioni in cui sono presenti simultaneamente cambiamenti rilevanti nella vita familiare, lavorativa o affettiva. Quando sono presenti eccessive reazioni da stress e stanchezza; quando si manifestano reazioni emotive esagerate o incontrollabili o, ancora, quando devono essere proposti interventi che richiedono scelte importanti e coinvolgenti.
In questi casi il supporto psicologico permette di:
- riconoscere, comprendere e gestire le reazioni psicologiche proprie;
- favorire il superamento del senso di impotenza, di colpa e di inadeguatezza;
- rinforzare e potenziare le abilità residue del malato;
- apprendere strategie per ridurre il disagio (ristrutturazione cognitiva del vissuto di malattia e dei repertori di vita da comportamentali in affettivo-cognitivi, tecniche di rilassamento, modalità di espressione del disagio, modalità comunicative specifiche);
- promuovere l’accettazione della malattia e la richiesta aiuto;
- rivedere il rapporto tra nuovi ruoli assunti e reali responsabilità;
- evitare l’isolamento sociale.
Conclusioni
Il percorso sopra descritto, un vero e proprio salto ad ostacoli su un sentiero in salita e sdrucciolevole, caratterizzato da cambiamenti continui, da reazioni coinvolgenti e necessari adattamenti, tiene conto di un’esperienza vissuta con numerosi pazienti, che nel vivere questa loro condizione insegnano ad accettare l’aiuto degli altri, a fronteggiare la sofferenza, a vivere con dignità, ad esprimere emozioni, provare coraggio e determinazione, ad amare la vita.
Tutti coloro, parenti, amici, conoscenti, vicini, assistenti, che inizialmente si avvicinano alla persona affetta da SLA e alla sua famiglia, devono farlo avendo sempre presente che non ci si avvicina alla malattia, ma ad un individuo, del tutto integro mentalmente. Confrontarsi con i disturbi dovuti alla malattia significa relazionarsi innanzitutto con una persona, i suoi sentimenti e vissuti, le sue emozioni, il suo carattere e i suoi interessi, le sue abilità e le sue abitudini.
Iniziali sentimenti di angoscia e paura devono lasciare spazio ad atteggiamenti di comprensione e rispetto, basati innanzi tutto su un’adeguata conoscenza della malattia, su modalità comunicative chiare e rispettose; è necessario manifestare sentimenti di stima e ammirazione per la capacità di vivere con la malattia mantenendo attaccamento alla vita, pronunciare pa-role di incoraggiamento comprendendo e accettando (anche il silenzio può essere un’adeguata forma di rispetto e comunicazione) momenti negativi in cui rabbia e sconforto prendono il sopravvento.
La condivisione di momenti di vita quotidiana porta facilmente coloro che si sono avvicinati al malato a riflettere sul senso della vita e spesso a revisioni sui valori personali. Vivendo esperienze di questo tipo ci si trova a riconsiderare sotto una nuova luce la famiglia, gli affetti, la salute e in generale le potenzialità adattative, a volte incredibili, della persona umana.
Si può entrare in una dimensione dove, accanto a dolore e sofferenza, stanchezza, sfinimento e rabbia, si può scoprire la forza della vita e degli affetti.
Proprio i rapporti affettivi, infatti, giocano un ruolo essenziale nella qualità della vita di tutti i familiari. In particolare, l’esperienza clinica evidenzia che se il clima affettivo precedente l’insorgere della malattia era forte e solido, con la malattia lo diventa ancora di più. Mai la malattia distrugge o logora saldi rapporti affettivi. Nonostante le relazioni affettive familiari vengano messe a dura prova, solo rapporti fragili, instabili o già in crisi prima della malattia rischiano fortemente di “saltare” e tendono a peggiorare con il progredire della stessa.
Accanto a numerosi esempi di disponibilità, vicinanza, grande affetto e coraggio in ambito familiare, a volte si incontrano tuttavia storie familiari in cui solitudine, abbandono, trascuratezza, arresa e sconfitta prevalgono e in cui sofferenza, vuoto affettivo, profonda rabbia e sconforto lasciano disarmati e rendono assai difficile qualsiasi intervento di aiuto.
Comunque possano differenziarsi le esperienze di vita, la malattia è una condizione che porta inevitabilmente a mettere in discussione coloro che la vivono e il mondo che li circonda.
In una società in cui prevalgono temi quali eterna giovinezza, bellezza, potenza ed efficienza e si tende ad allontanarsi da tutto ciò che può rappresentare dolore, sofferenza, perdita e morte, la realtà della vita, ed in particolare la realtà-malattia, costringe a confrontarsi con questi temi e porta a riscoprire valori quali il rispetto della vita in tutte le sue forme, l’unione familiare, l’amicizia, la solidarietà e la spiritualità.
In condizioni di difficoltà la presenza di valori saldi aiuta a vivere con pienezza; tra questi valori di riferimento riteniamo che la spiritualità costituisca un valore importante meritevole di essere riscoperto.
La fede religiosa si pone infatti come punto di sostegno per le persone malate che credono; è proprio grazie alla fede che esse trovano risposte alle loro domande dando un senso alla loro sofferenza e vivendo con serenità la condizione di perdita e di avvicinamento alla morte.
Queste così delicate fasi finali dell’esistenza umana, pur se temute e sofferte, vengono tuttavia vissute, grazie appunto alla fede e alla religiosità, non come “la fine” ma come un momento di passaggio.
Vorremmo concludere questa prima parte sottolineando che, pur nella piena consapevolezza che non è possibile comprendere fino in fondo i vissuti e la sofferenza dei malati e dei loro familiari, una misurata empatia e l’esperienza professionale permettono di poter “vedere” con obiettività e lucidità, consentendo a noi operatori di fornire indicazioni, suggerimenti e percorsi interpretativi utili per fronteggiare le difficoltà imposte dalla cronicità e dalla progressione della malattia.
Sapere che quanto scritto può essere d’aiuto dà senso e valore al lavoro proposto.