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Chi è Gianluca Fantelli

Che parola posso usare per salutare tutti voi? Buongiorno, buonasera, buonanotte, ciao…forse meglio un “salve”?

Il “salve” ti “salva” sempre, in tutte le situazioni. Ti toglie l’impaccio, dalle cosiddette “pesche” e ti evita di dichiarare il “tu” o il “lei”.

Conosco Phil da una calda mattina estiva.

6 agosto 2009. Parto da casa per farmi visitare da “Einstein” Fabri e dopo un attimo mi ritrovo a discorrere amabilmente con un corpulento uomo in polo gialla. Phil, appunto. Parlo di sito e di ONLUS, di musica e concerti. La mia SLA passa immediatamente  in secondo piano ed è quello che desidero più di ogni altra cosa.

Phil sembra capire immediatamente quello che voglio e, da come gli brillano gli occhi, sembra sapere già esattamente quello che vuole da me.

Mi propone subito di fare quello che sto facendo, ovvero scrivere su queste pagine.

Oggi Amelia mi chiede di presentarmi e dire “chi sono”.

Potrei farlo anagraficamente e schematicamente, dicendo semplicemente che mi chiamo Gian Luca Fantelli, sono nato a Bologna il 26 novembre 1963, ho una diagnosi di SLA dal 18 aprile 2007, sposato con Moira, una figlia, Martina, di 7 anni.

Ma non è questo che mi interessa dirvi e non è ciò che vi interessa sapere. Quello che dovete sapere è che sono un “uomo”, una “persona” che ha avuto la grande sfiga di beccarsi la SLA.

Ma è giusto dirvi che la SLA, la maledetta bastarda, mi ha fatto riscoprire la mia grande vena artistico/creativa.

Sì, perché io sono un “artista”, uno “scrittore”. Ho un progetto che si sta sviluppando, un obiettivo che prevede che io possa “lasciare il segno” in maniera profonda, indelebile. Ma il mio intendimento è anche quello di fare in modo che il malato di SLA possa capire che può mantenere il suo status di “persona” ed esprimere le sue potenzialità prima che sia troppo tardi.

Seguitemi in questa mia “follia” e credo proprio che non ve ne pentirete.

Nessuno alzerà bandiera bianca.

Io e la SLA

Da quando, quel terribile 17 marzo 2007, mi è piombata addosso come una mazzata la notizia che erano alte le probabilità di essere affetto da S.L.A. (notizia poi confermata a Torino dall’equipe del Prof. Adriano Chiò il 18 aprile 2007), la mia vita è profondamente cambiata.

Ho percorso tre fasi distinte.

La prima, terribile, della “devastazione interiore”. Non capivo, non avevo punti di riferimento, spesso temevo di andare a dormire e risvegliarmi senza l’uso delle gambe. Pensavo di avere poco da vivere perché concepivo il “vivere” esclusivamente come “vita completamente autonoma”. Temevo che le persone intorno a me si accorgessero che non stavo bene. Mi ha aiutato molto avere la “fortuna” di avere una forma poco aggressiva e quindi di avere progressivamente la possibilità di metabolizzare i peggioramenti.

Questo mi ha consentito di passare abbastanza indenne alla seconda fase, quella di adattamento o “intermedia”. E’ stato questo il momento della presa di coscienza, del ragionamento, della volontà di scoprire quali eventuali possibilità si potevano venire a creare nel campo della ricerca e della sperimentazione. Purtroppo le sperimentazioni alle quali ho partecipato hanno avuto tutte esito negativo.

Sono quindi scivolato con dolcezza verso la terza fase, quella meravigliosa della determinazione e della “reazione”. Tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 il mio cervello ha iniziato a pensare sempre più in grande e finalmente ho capito che mi ero spesso troppo “nascosto” e sottovalutato. Ho iniziato a confidare il mio “segreto” a un numero sempre più alto di persone, partendo da quelle a me più vicine per allargare sempre di più il campo. Questo mi ha consentito di sentirmi sempre più a mio agio nei rapporti con le persone.

Poi ho capito che era il momento giusto per fare qualcosa di indimenticabile e che lasciasse il segno.

Nessuno alzerà bandiera bianca!

12 febbraio 2013 - PENSIERI DISORDINATI del Fante

Il bar dell’ospedale Bellaria è stato spostato nei sotterranei per ragioni legate ai costi. Per lo stesso motivo hanno montato una bella sbarra nel parcheggio che prima era libero, ma io che ho il culo di avere una malattia terminale, progressiva e invalidante, continuo a non pagarlo. Divagazioni sociali.

Sul muro interno del bar c’è una bella foto del Bologna Campione d’Italia del ’64. È quella più famosa, fatta con la squadra messa un po’ di traverso, con Fuffo Bernardini tiratissimo nel suo completo grigio, cappello compreso. Negri, Tumburus, Furlanis…avevo sei mesi di vita quando il Bologna vinse lo spareggio con l’Inter. Non c’entra nulla? Sono d’accordo. Ma i pensieri sono liberi, mica sono obbligati a seguire un ordine preciso. È strano trovare qui questa foto visto che quello che fa i caffè si chiama Carmine, la ragazza che smista le brioches ha uno spiccato accento del sud e la signora alla cassa non da l’idea di essere una grande tifosa di calcio. Ma in questo giorno di analisi periodiche non è l’unica cosa “fuori posto” e il racconto che sto per farvi dimostra come una mattina in ospedale possa essere quanto meno inusuale.

Si comincia da Neuroscienze alle 8.30 per i prelievi, ma il reparto è sparito e al suo posto c’è un cantiere. Ovviamente nessuno mi ha informato e non c’è nemmeno un cartello che fornisca indicazioni. Ma sono fortunato e trovo subito il posto giusto. Vengo qui da almeno tre anni eppure non riconosco nessuno. Mi dicono di aspettare il mio turno. C’e altra gente in attesa, ma non so di preciso cosa attende. Faccio un giretto esplorativo e nella saletta prelievi vedo solo due anziani che aspettano speranzosi un’infermiera.

Ne scorgo due, una secca e una abbondante, che dialogano tra loro:

“Devi fare degli ECG?”

“Ah no eh! Sono oberata con i prelievi!”

Penso con disappunto che forse sono tutti qui per dare sangue:

“Non mi passa più, cazzo!”

La “secca” spinge la macchina dell’EGC che è sopra un supporto con le ruote e chiede a una collega indicazioni sul reparto da raggiungere:

“Facile, vai a destra e poi a sinistra.”

La “secca” ringrazia e si avvia sorridente. Poi quella “abbondante” appare in tutta la sua rotondità e pone la domanda fatidica:

“Chi deve fare il prelievo?”

Siamo almeno in dieci ma solo io mi alzo di scatto come un bambino orgoglioso che vuole rispondere alla domanda della maestra:

“IO!!!”

Nessun altro emette un fiato. Benchè sollevato per avere schivato una possibile lunga attesa, un pensiero mi sfiora:

“Oberata sto cazzo!”

Mi siedo sulla poltroncina e indico le mie vene preferite. Abbondante ma delicata, mi ciuccia tre provette di sangue.

“Lei ha anche la spirometria.”

“Si.”

“La fa?”

“Certo.”

“Sicuro?”

“Vuole una dichiarazione scritta?”

“Va da solo o la portiamo noi?”

“Ce la faccio, grazie!”

Mentre aspetto l’ascensore il mio sguardo incrocia la “secca” che spinge la macchinetta per l’ECG. È molto meno sorridente.

È passata mezz’ora, possibile che stia ancora cercando il reparto? Rifletto distrattamente fra me è me:

“Forse ha già fatto.”

La spiro si fa nei sotterranei, controsenso dal sapore claustrofobico. C’è un fisso che sembra il primo giorno di saldi da Harrod’s o Lafayette. Ho l’impressione che mi passino tutti davanti, come se l’infermiera stesse mettendo le richieste dei nuovi arrivati sopra le altre invece che sotto, come logica vorrebbe.
In più il tecnico che esegue le spiro è una ragazza che di solito è carina ma che oggi ha una sclero pazzesca e fa dei versi inenarrabili.  Schizza del tutto quando chiama un tizio sui settanta che seduto a distanza siderale dall’ambulatorio sta raccontando i suoi cazzi a un coetaneo che sembra averne le palle piene di lui e del l’attesa.

“BRIGNOLI!”

La moglie sente, chiama il marito che con molta calma si alza e la raggiunge. Amorevolmente gli fa togliere giaccone e sciarpa.

“BRIGNOLIIIIII!!!!”

Un bradipo si muove a velocità doppia rispetto a Brignoli. La moglie lo esorta ad andare:

“Dai, vai…ti hanno chiamato!”

“Ah si? Mi hanno già chiamato?”

“BRIGNOOOOLIIIIIII!!!!”

Lui con le mani nelle tasche dei pantaloni caracolla con inusitata lentezza fino alla soglia dell’ambulatorio, poi li si ferma con una posa fiera, figlia del migliore John Wayne ed esclama:

“Brignoli è qui!”

La tizia diventa viola, le palle degli occhi sembrano schizzarle fuori dalle orbite, mi aspetto solo di vedere uscire il fumo dalle orecchie. Poi le si gonfia di brutto la vena del collo ed esplode:

“CHIUDA LA PORTAAAAAAA!!!!!”

In corridoio e in sala d’attesa si sprecano i commenti. Qualcuno è indignato, altri sono scioccati, altri ancora ridono di gusto. Si apre un dibattito sulla pochezza della sanità italiana:

“Eh ma in America signori miei…lo sapete voi come funziona in America?”

Un tizio esprime sottovoce uno sfruttato luogo comune relativo alla probabile e prolungata astinenza sessuale della tizia. Sulle prime sorrido ma poi decido che l’attesa è durata abbastanza e mi avvio verso il bar. L’infermiera abbondante faceva meglio a farmi firmare la dichiarazione scritta. Nel breve tragitto incrocio di nuovo la “secca” che spinge imperterrita la macchina per gli ECG. Ha lo stesso sguardo sperduto di chi naviga senza meta alla ricerca di se stesso, senza mai trovarsi. Sorseggio il mio caffè con gli occhi fissi sullo SQUADRONE CHE TREMARE IL MONDO FA. Negri, Tumburus, Furlanis, Pavinato, Janich, Fogli, Perani, Bulgarelli, Nielsen, Haller, Pascutti, allenatore Bernardini. Quando i numeri di maglia avevano un senso. 50 anni dallo scudetto, 50 anni di vita bellissima, la mia. Pensieri disordinati, è vero, ma non è forse questo che rende la vita fantasticamente imprevedibile?

14 ottobre 2012

Avere la S.L.A. non è un dono, non è un’opportunità.

La S.L.A. porta dolore, devastazione interiore, dramma e tragedia.

Chi reagisce alla S.L.A. non è un eroe, non è un fenomeno, ma solo una persona che vive costantemente sul filo del rasoio per mantenere un equilibrio fortemente instabile.

Nessun diritto, nessuna scusa, nessuno sconto.

Chi ha la S.L.A. incontra, come tutti gli altri, chi lo protegge con una rete e chi invece affila la lama del rasoio e lo devasta senza pensare ai tagli profondi che provoca alla sua anima, che spesso non si cicatrizza.

Chi ha la S.L.A. perdona ma non dimentica e non sopporta le cazzate, e nemmeno lo scarso valore umano di chi non ha coscienza e sensibilità.

Chi ha la S.L.A. lotta ogni giorno con ciò che la vita gli toglie, ma ogni giorno è disposto a dare tutto ciò che gli è rimasto e anche di più. Chi approfitta di questo è persona di basso profilo umano e non ha giustificazioni, lo ferisce in profondità e non lo uccide solo perché chi ha la S.L.A. sa di essere già morto, e nessuno può morire due volte.

Chi ha la S.L.A. è una persona reale che affronta ogni giorno la realtà, sa che i problemi esistono, che non si possono rimandare all’infinito, e non esita a cercare soluzioni che possano risolverli, per sé e per gli altri. Cade mille volte e mille volte si rialza, anche quando non può più muoversi.

Chi ha la S.L.A. non ha per forza un’anima nobile e può essere anche un grosso stronzo, ma di certo conosce il vero profumo della vita e sa cos’è l’amore, quello vero.

Se ti innamori di una persona con la S.L.A. o sei folle o hai molto coraggio, ma la tua follia e il tuo coraggio saranno ampiamente ripagati dalla lezione di vita e dall’amore che riceverai.

Chi ha la S.L.A. sogna di non averla, ma fa anche un sacco di altri bellissimi sogni che ama condividere con chi ama.

14 marzo 2011

Le avventure di OKI e TAKI

Carissimi lettori, col ritardo che da sempre mi contraddistingue eccomi di nuovo a voi per iniziare a raccontarvi le mirabolanti avventure di OKI e TAKI. Chi sono costoro? Sono due coraggiosi SAMURAI della vecchia guardia, di quelli che “non se ne fanno più”, disposti a lottare ad oltranza per i diritti dei samurai più giovani e inesperti che invece rischiano di essere travolti dalle difficoltà di una vita piena di ostacoli. Loro invece, pur essendo figli degli stessi eventi, hanno deciso di ribellarsi ai voleri della REGINA MALEDETTA che li ha privati della loro KATANA, la spada rituale, costringendoli alla schiavitù e si rivolgono al GRANDE BAYER per riavere la loro magica arma ed essere nuovamente dei RONIN, uomini liberi. Riusciranno nel loro intento? Potranno evitare le trappole tese loro da KRAMPO, FASCIKOLO e ATROFIKO, viscidi e subdoli seguaci della REGINA MALEDETTA? Arriveranno alle soglie del TEMPIO DELLA SALUTE dove il GRANDE BAYER potrebbe ridare loro la libertà? E avranno l’appoggio del saggio MUSKORIL? Oppure si faranno abbindolare dal vecchio BABINSKI, detto anche DOUBLE FACE? Carissimi lettori, qui ce n’é davvero per tutti e quindi voi leggetemi, attendete impazienti le puntate che seguiranno, insultatemi per i miei ritardi, fatevi prendere dall’ansia per ciò che potrebbe accadere negli episodi successivi, imprecate pure di fronte al “continua” in fondo alla pagina e soprattutto lamentatevi con Amelia, che non è strega che ammalia come quella che vuole costantemente entrare in possesso del primo cent di zio Paperone, ma certamente è in grado di massacrarmi spiritualmente e non solo, affinché io fornisca, con inusuale tempestività, le puntate a venire e voi non dobbiate strapparvi le vesti durante la snervante attesa.

Continua…

8 agosto 2010

Carissimi lettori del sito AssiSLA,
è da un po’ che non ci sentiamo o per meglio dire è da qualche tempo che non scrivo per voi e, di conseguenza, voi non potete leggermi. Non pensate che mi sia dimenticato, ma sono stato preso da una serie di faccenduole che mi hanno tenuto lontano dalla scrittura in prosa. Sì, perché a ben vedere, anche sul mio sito è da parecchio che non pubblico racconti. Forse vi chiedete come mai? Mah…in realtà non saprei. Diciamo che di solito scrivo basandomi su fatti realmente accaduti che magari cerco di rendere in maniera leggermente ironica o spiritosa e forse non mi è successo nulla di particolarmente adatto alla bisogna.
Mi servirebbe un episodio interessante da raccontare e da rendere divertente, ma non ho scelta, me lo devo inventare.

Potrei partire dal mitico “c’era una volta”, a mo’ di favola e raccontarvi di quella volta che…

Il leone matto

C’era una volta un leone, che regnava sulla foresta degli animali “inversamente sani”. Vi starete chiedendo che cosa significa. Ebbene, in quello strano regno tutti gli animali avevano problemi di salute, nessuno era davvero sano. Ad esempio, la zebra aveva una zampa di legno, la giraffa girava con un vistoso collare, a causa di un problema muscolare che le impediva di tenere dritto il collo, la tigre girava su una sedia a rotelle e persino la pantera nera non poteva più muovere le zampe anteriori.

Il leone, a dire il vero, pareva sano a tutti gli effetti e nascondeva abilmente la grave malattia al cervello che l’aveva reso pazzo. Così, per farsi ben volere da tutti fingeva di essere “inversamente” sano come i suoi sudditi. Girava in carrozzella, portava un vistoso collare per reggere il collo e non muoveva mai le zampe anteriori.

Tutti gli animali avevano sempre avuto grande stima nel loro Re e lo avevano sempre sostenuto nelle lotte continue contro i nemici di sempre, gli umani. La foresta, in realtà, altro non era che una riserva dove gli umani avevano relegato gli animali “inversamente sani” allo scopo di controllarli e gestirli meglio. Un tempo la foresta era enorme, ma poi gli umani avevano via via deciso di restringere il territorio destinato agli animali e questi ultimi avevano visto nel corso degli anni restringersi i loro spazi e, conseguentemente, la qualità della loro vita.

Di conseguenza sempre più spesso succedeva che qualche animale perdesse la pazienza e cercasse soluzioni alternative, come ad esempio uscire dalla riserva, oppure esprimesse protestando il suo disappunto. Allora il leone matto interveniva spiegando ai suoi sudditi che rimanere nella riserva era il modo più sicuro per vivere e che fuori dalla foresta il mondo era pericoloso, colmo di insidie, e quindi era molto meglio stare in uno spazio angusto piuttosto che prendersi inutili rischi. E continuava a parlare con grande eloquenza raccontando e convincendo tutti che comunque avrebbe pensato a tutto lui che era il loro Re.

Nessuno sapeva che il leone faceva il doppio gioco. Nessuno poteva nemmeno lontanamente immaginarlo. Eppure aveva regolari incontri con gli umani. Ufficialmente erano incontri stabiliti e dovuti, in quanto il leone era stato delegato dagli umani a gestire la riserva, ma in realtà in quelle oscene riunioni venivano stipulati accordi vergognosi che portavano benefici diretti al Re e alla sua losca corte, in cambio di restrizioni sempre più pesanti per i suoi sudditi, costretti a vivere in condizioni sempre più disagiate.

Il leone era matto, ma non era cattivo, forse era persino in buona fede.

Un tempo era stato lui a far sì che gli animali “inversamente sani” non dovessero vergognarsi delle loro condizioni. Si era battuto con grande trasporto perché il mondo degli umani si accorgesse dei suoi sudditi. Era stato lui ad ottenere uno spazio garantito per gli animali e sempre lui a volere che fossero seguiti in uno spazio a loro destinato dove ci fosse chi poteva prendersi cura non solo del singolo animale, ma anche di tutta la sua famiglia. Aveva persino creato uno spazio apposito dove ogni giorno gli anziani della riserva si riunivano e cercavano insieme soluzioni che potessero ridare giovamento agli animali colpiti dalle varie patologie.

Insomma non si può dire che non si fosse meritato di assumere la guida della foresta. Ma poi era successo qualcosa di strano, aveva iniziato ad essere superbo, a sentirsi importante. Pretendeva di conoscere le risposte ad ogni quesito e di sapere cos’era meglio per ognuno dei suoi sudditi, senza rendersi conto che sì, era giusto un trattamento paritario, ma ognuno aveva problematiche diverse. Il potere arrivò a conquistarlo, a inebriarlo, e probabilmente non si accorse nemmeno che il seme della follia si era insediato nel suo cervello. Perse il controllo delle sue parole, dei suoi gesti. Credeva di vedere dove altri non vedevano, ma in realtà guardava soltanto.

Il seme trovò terreno fertile e crebbe senza sosta e fu proprio allora che iniziò a fingere sintomi inesistenti.

II parte

Lì per lì gli era sembrata un’ottima idea, pensava di non fare nulla di male, anzi, riteneva che girare in carrozzina, tenere il collare e non muovere le  zampe superiori avrebbe fatto sì che i suoi sudditi lo sentissero più vicino a loro e in effetti non sbagliava.
Usciva accompagnato dal suo cornuto rinoceronte di fiducia e ogni mattina si faceva pettinare la criniera dal cervo parrucchiere. Non aveva mai un pelo fuori posto. Si poteva persino dire che era bello. Sì, era bello, radioso e sempre sorridente. Un sorriso stampato, che però a lungo andare diventava quasi fastidioso e poteva dare il sospetto di essere falso.
Coltivava una sorta di “culto estetico” in maniera tanto precisa quanto inutile. Ormai non gli bastava più essere sempre ben pettinato e profumato. Utilizzava oggetti sempre più costosi e si fece fare (ovviamente dagli umani) una carrozzella completamente cromata. Era talmente luccicante che nelle giornate di sole gli animali non riuscivano a guardarla, tanto era splendente. In un’escalation di follia estetica arrivò persino a vestirsi in giacca e cravatta, proprio come gli umani che incontrava in quelle sordide riunioni, in una sorta di remake di un famoso romanzo di George Orwell (La Fattoria degli Animali, dove i maiali diventano simili agli umani). Diceva che in questo modo gli umani sarebbero stati più disponibili nei suoi confronti e quindi favorevoli a elargire maggiori concessioni agli animali.
In realtà tutto ciò che il leone matto faceva andava a vantaggio di se stesso  perché curava esclusivamente i suoi interessi personali.

Eppure non era cattivo. Avreste dovuto vederlo a quelle terribili riunioni.

Partiva da casa con le migliori intenzioni. Tra sé e sé ripeteva che non era giusto che gli animali non avessero lo spazio che meritavano e che andavano aiutati e sostenuti, specialmente quelli che versavano in condizioni ormai disperate. Durante il tragitto ripeteva più volte i discorsi che si era preparato, e ogni volta era sempre più veemente nella sua esposizione. A volte si faceva talmente prendere dall’agitazione, che il cornuto rinoceronte doveva provvedere a calmarlo. Sosteneva che un animale “inversamente sano” aveva diritti inalienabili che non potevano essere trascurati. Forse per questo aveva deciso di fingere anche con gli umani e si recava agli incontri a bordo della sua carrozzella fiammante, munito di collare e con le zampe anteriori apparentemente prive di forza.
Era combattivo, o almeno lo era fino a quando non varcava la soglia della stanza circolare ovvero il luogo dove avvenivano tutti gli incontri.
Era proprio circolare quella stanza. Conteneva un enorme tavolo, anch’esso rotondo, e non aveva punti di riferimento cosicché ovunque ti sedevi sembrava di essere sempre nello stesso luogo. Le pareti uniformi, le finestre tutte uguali, e la porta, una volta chiusa, era mimetizzata da una parete dipinta di giallo con la tecnica spatolata dello stucco veneziano. Ma anche la pittura era talmente perfetta che era impossibile distinguere un punto da un altro. Era la stanza del potere.
Anche questa volta, come tutte le altre volte, il leone matto era arrivato sulla soglia della stanza circolare agguerrito e colmo di buone intenzioni, ma poi, una volta accomodatosi al suo posto e con la porta chiusa alle sue spalle, cambiava atteggiamento diventando insolitamente dimesso. Pareva quasi che quella stanza avesse il potere di modificare e sminuire la sua personalità.
Quando poi gli umani si disponevano ai loro posti il leone matto diventava l’unico elemento a distaccarsi da tutto il resto. Sì, perché anche gli umani erano assolutamente identici fra loro. Stesso viso, stessi occhiali scuri (impossibile guardarli negli occhi), stessi vestiti, stesse scarpe, stessa pettinatura. Anche le parole che pronunciavano erano esattamente uguali, proprio le stesse, dette con la stessa tonalità di voce, la stessa inflessione regolare, muovendo le labbra allo stesso modo.
Nonostante questo il leone aveva l’impressione che periodicamente gli umani cambiassero, fossero diversi, ma poi questa sensazione svaniva una volta che sentiva ripetere sempre le stesse cose. Forse era la sua diversità a provocare quella sua tranquillità avvilente. Forse era un tentativo inconscio di sentirsi simile agli umani. Quando varcava la soglia di quella stanza si trasformava. Non era più il sovrano degli animali della foresta, ma la brutta e ridicola copia di un umano. Riusciva persino a ritenersi fortunato di essere accettato nel tempio del potere umano, perso com’era nella sua cieca volontà di mantenere il suo alto livello estetico. Alla fine della riunione di solito usciva felice, tornava nella riserva conscio di avere ottenuto ciò che desiderava, e questo effetto benefico durava fino all’incontro successivo, quando durante il tragitto si ripeteva la scenetta nella quale ripassava veemente il suo discorso sotto gli occhi ormai rassegnati del fido cornuto rinoceronte.
Ma questa volta le cose andarono diversamente…

III parte

…perché gli umani avevano intenzioni bellicose. Quello che, benché uguale agli altri, sembrava il capo prese la parola e con un discorso che Ugo Tognazzi (nel film “Amici miei”) avrebbe definito una grandissima supercazzola, lasciò chiaramente intendere che per gli animali si preparavano tempi davvero duri.
Gli umani avevano deciso di restringere la riserva ai minimi termini, togliere tutti gli ausili a favore degli “inversamente sani”, compresi i sostegni alle famiglie, nonché di chiudere totalmente gli aiuti al progetto di ricerca degli Anziani. Infine gli animali vennero apostrofati come “peso per la società”. Ovviamente il leone matto, in virtù del suo importante ruolo di mediatore e di grande amico degli umani avrebbe mantenuto tutti i suoi privilegi. Proprio per il “fondamentale e socialmente utile lavoro svolto a favore delle istituzioni e per essersi reso elemento insostituibile nella lotta alle inutilità animali” veniva ora insignito di una medaglia al merito umano, primo leone della storia ad ottenere un tale riconoscimento.
Partì immediatamente un fragoroso applauso e mentre si moltiplicavano le strette di mano, uno degli “identici” si alzò e giunto che fu davanti al leone, gli appuntò l’ambita onorificenza sulla giacca.
Il leone matto gonfiò il petto pieno di orgoglio. Dimenticò i suoi pensieri, il suo discorso aggressivo e, quel che è peggio, dai suoi pensieri si dissolse quello per i suoi sudditi e per le nuove, dure, ristrettezze che avrebbero dovuto patire.
Fuori dalla porta lo attendeva il cornuto rinoceronte che non poté fare a meno di notare la patacca luccicante che faceva bella mostra di sé sul petto del leone e si complimentò sinceramente, ignaro dei discorsi che erano stati fatti all’interno della sordida stanza circolare.
Giunto che fu alla riserva, convocò immediatamente una riunione straordinaria alla quale tutti dovevano essere presenti. Per quale motivo? Ma ovviamente per mostrare a tutti la sua patacca sul petto, cos’altro!
In effetti non mancava nessuno, ansiosi com’erano di conoscere l’esito della riunione.
Il leone matto, tronfio nel suo vestito umano, mostrava orgoglioso la sua patacca e nel mentre spiegava i grandi meriti che gli erano stati elencati e per i quali aveva raggiunto un tale prestigioso traguardo.
Passò una buona mezz’ora nel corso della quale il Re aveva continuato e tessere le sue stesse lodi in maniera sperticata, poi dal fondo della sala si udì una flebile voce domandare: “…ma..cosa si è detto alla riunione riguardo a noi animali?”

Era stata la civetta. A tutti parve molto strano che fosse proprio lei, la civetta. Lei che passava ore ed ore a rimirarsi nelle acque del lago aveva formulato la domanda che ogni animale aveva in testa ma non aveva mai osato oltrepassare la bocca. Si girarono all’unisono verso la civetta facendola sentire in forte imbarazzo, tanto che si chiese se per caso non era meglio tacere come aveva sempre fatto. Ma poi tutti spostarono l’attenzione sul Re e posso assicurarvi che non fu per uno sguardo benevolo.
Il leone sprofondò sul morbido cuscino della carrozzella ed ebbe un crollo totale, tanto che  non riusciva più a muoversi. Pareva quasi che tutto ciò che aveva finto di avere per tanto tempo diventasse reale all’improvviso. Perse interesse per la sua patacca e si ricordò di colpo le parole degli umani. Non riusciva più a parlare e soprattutto non aveva idea di come tirarsi fuori da quella situazione. Provò ad abbozzare qualcosa, ma gli animali delle prime file iniziarono ad incalzarlo esigendo una risposta immediata. Il leone si sentì mancare il respiro e infine svenne, col capo riverso su un lato e la bava alla bocca.
Tutti accorsero in suo aiuto.
Riaprì gli occhi lentamente, il giallo soffitto dapprima offuscato divenne sempre più nitido. Aveva la testa che gli doleva e nella mente vagava il ricordo di uno strano sogno dove Leo(nardo) Sciascia, un suo avo, gli ripeteva continuamente: “Ci sono leoni, mezzi leoni, leonicchi e quaqquaraqquà. Tu che cosa sei?” Chissà cosa significava, davvero un sogno molto strano. Pensò rapidamente che aveva temuto per la sua vita, ma che tutto sommato era riuscito a schivare le domande incalzanti dei suoi sudditi. Il suo pensiero doveva però restare deluso una volta sollevata la testa, perché intorno al suo letto (ovviamente dormiva in un letto, come gli umani) erano schierati parecchi animali con lo sguardo torvo, che non attendevano altro che il suo risveglio, per avere risposte alle loro domande. Si sentì davvero perduto. Iniziò a balbettare qualcosa, ma questa volta non svenne come forse invece avrebbe sperato.
Gli animali volevano sapere tutto e non si sarebbero accontentati della solita “supercazzola”. Fece un sospiro, accompagnato da una specie di ruggito che qualcuno scambiò per un rutto e poi cominciò a raccontare come stavano realmente le cose. Andò avanti per un paio d’ore, di fronte alle facce sempre più attonite degli animali che non volevano credere alle proprie orecchie. Era pazzesco udire dalla bocca del loro Re che la situazione era davvero disastrosa.

IV Parte

Adesso si sentiva molto meglio. Aveva tirato fuori un peso devastante che si aggirava da tempo sul suo stomaco. Ma non si rendeva ancora conto di ciò che stava per accadere. Gli animali gli voltarono le spalle e uscirono con ordine e silenzio dalla stanza e nessuno gli rivolse la parola, nonostante lui cercasse di trattenerli o almeno di avere risposte in grado di fargli capire lo stato d’animo generale. Solo quando anche il cornuto rinoceronte lo guardò con disprezzo, prima di andarsene, capì che le cose stavano volgendo al peggio.

Nei giorni che seguirono si levò sempre più alta la protesta degli animali.

La lince, ad esempio, minacciò uno sciopero della fame, perché proprio non ce la faceva più.
Dovete sapere che la lince era veramente combinata male. Non camminava, non muoveva le braccia, non riusciva più nemmeno a parlare. A dire il vero non riusciva ormai a muovere nemmeno un muscolo. Soltanto i suoi proverbiali occhi riuscivano ancora a roteare liberamente all’interno delle orbite e non so dirvi bene come, ma con essi riusciva a farsi capire perfettamente.
Dunque, come dicevo, la lince proprio non ci stava, la situazione era davvero critica e quindi decise di avviare questa protesta estrema, lo sciopero della fame. Riuscì a radunare un bel numero di amici, anch’essi con gravi problemi di deambulazione e comunicazione. Il tragicomico e silenzioso corteo si avviò lentamente verso l’alloggio del leone con intenzioni tutt’altro che socievoli.

Il Re in quei giorni aveva continuato a guardare il soffitto, i pensieri raccolti in un cesto e le parole introvabili di chi sente la colpa nel cuore.

Quando vide arrivare la lince e il suo seguito gocciolante di sudore per lo sforzo immenso, si alzò dal letto con le sue gambe e, tra lo stupore generale appoggiò una delle zampe (presunte) malate sulla fronte imperlata della lince. Il felino, che già aveva un caldo assassino, sentendosi addosso la bollente e pelosa estremità del Re, credette di impazzire. Ma non poteva parlare e gli occhi, unica parte del corpo funzionante, erano coperti dall’enorme zampa. Nessuno si accorse del suo disagio, presi com’erano dallo stupore per il miracolo del leone che era guarito e che (secondo loro) voleva trasmettere il fluido benefico al suddito malato. Il matto non capiva ancora l’ascendente che nonostante tutto i suoi sudditi nutrivano nei suoi confronti e continuava distrattamente a detergere il sudore dalla fronte della lince, fino a quando il povero felino svenne, travolto dal caldo asfissiante.

Si decise di andare a manifestare sotto le finestre della stanza circolare. La ritrovata fiducia nel Re spinse gli animali a inneggiare il suo nome e a chiedergli di guidare la lotta. Ma anche questa volta il leone matto era indeciso, combattuto, non sapendo da che parte stare. In realtà aveva ben compreso (finalmente) gli interessi degli animali, ma al tempo stesso non voleva contraddire gli umani. Insomma, avrebbe dato volentieri un colpo al cerchio e uno alla botte, conservando un sorriso per tutti e senza fare torti a nessuno. Ma si sa, non si può piacere a tutti e non è possibile stare con le zampe in più scarpe, anche perchè gli animali non le indossano.
Partì comunque alla testa del corteo, col pensiero che si sarebbe inventato qualcosa strada facendo.
Quando giunsero al palazzo cilindrico il sole era appena sorto. Gli animali, e la lince su tutti, non volevano rischiare di arrivare tardi, ma il leone sapeva bene che gli umani erano tutt’altro che mattinieri. Passarono infatti parecchie ore prima di vedere due degli “identici” apparire all’orizzonte. Erano davvero indistinguibili, perfettamente uguali in tutto e per tutto. Il leone li avvicinò e balbettando cercò di spiegare la situazione mentre il cornuto rinoceronte gli alitava sul collo, ma l’unica risposta che ottenne fu un solenne: “Vedremo…Diremo…Faremo…”
I due umani entrarono nel palazzo lasciando il leone senza parole e mentre il cornuto rinoceronte lo guardava un po’ torvo cercò di dare qualche spiegazione agli animali: “Vedranno…Diranno…Faranno…” furono le uniche cose che riuscì a dire di fronte allo sguardo interrogativo del corteo animale.
Nel frattempo arrivò un altro gruppetto di umani, saranno stati cinque o sei, anch’essi uguali agli altri nell’aspetto come nelle esternazioni: “Vedremo…Diremo…Faremo…” Gli animali non riuscivano a capire cosa significavano quelle parole e il leone provava a spiegare che erano positive e che sicuramente le cose sarebbero andate per il meglio. Ma non ne era per nulla certo, solo che non voleva dispiacere gli umani lamentandosi inutilmente e al tempo stesso voleva mantenere intatte le speranze dei suoi sudditi. Il tempo passava inesorabile e il caldo aumentava provocando le prime velate proteste che iniziarono a levarsi dai manifestanti. Quando giunse l’ultimo degli umani, il cornuto rinoceronte iniziava ad essere spazientito. Prese quindi sotto braccio il Re e lo spinse verso il personaggio incravattato, ovviamente anch’esso identico agli altri. Il leone abbozzò il solito discorsetto e l’umano non seppe dire altro che: “…Faremo…cioè…Vedremo…” Il cornuto rinoceronte non ce la faceva più e prese il tizio per il cravattino. Quello si spaventò a morte e iniziò a sbraitare rivolto al leone: “Ehi, metti a cuccia questo cornuto…e poi che te ne frega di questi rifiuti della società…perché non li molli al loro destino?” Il rinoceronte imbelvito stava quasi per incornare l’umano quando avvenne qualcosa di incredibile. Il leone cambiò improvvisamente espressione e dopo un ruggito veramente spaventoso strappò letteralmente il malcapitato dalle grinfie del suo suddito. Sembrava davvero una belva assetata di sangue. Con una potente zampata distrusse il vestito dell’umano che nel frattempo aveva perso i sensi per la paura. La sorpresa fu enorme. Sotto il vestito da umano era nascosto un manto peloso dello stesso colore di quello del Re. Si calmò all’istante, costernato. Non riusciva a capire, nessuno ci riusciva. Il leone matto alzò lo sguardo e si accorse che a causa del trambusto tutti gli identici erano usciti in strada e si stavano avvicinando stravolti dal terrore. Lui li guardava allibito e quando gli furono abbastanza vicino, senza dire una parola, tutti insieme, nello stesso modo e nello stesso momento, andarono con una mano sotto il colletto della camicia per cercare la linguetta della cerniera lampo. Tutti la fecero scorrere all’unisono, rivelando la loro reale natura. Erano tutti leoni. Il Re, sconvolto, non sapeva che fare. Si voltò verso i suoi sudditi, poi di nuovo verso quelli che aveva sempre creduto umani e iniziò a balbettare qualcosa: “…ma…allora…io…sono come…voi…” Fu solo allora che uno dei leoni andò verso di lui e gli si pose proprio davanti dicendo: “No…tu non sei come noi…adesso sei colui che può tenerci tutti uniti…devi solo volerlo davvero.” Con una mano cercò sotto il mento del Re, tra la folta criniera, e una volta trovata la linguetta della cerniera lampo la fece scorrere fino in fondo rivelando a tutti l’aspetto umano del leone matto.

The end

3 aprile 2010

Avete mai sentito parlare di sogni ricorrenti? Personalmente non mi era mai capitata una ripetizione onirica, ma c’è sempre una prima volta, per tutto. E infatti…

Sono al binario 6 della stazione centrale di Bologna. Il treno parte alle 11.53. Sono le 11.50 e “Sogliola” ancora non si vede. “Sogliola” in realtà è un panzone pazzesco, ma si sa, nei sogni succedono cose strane. Finalmente appare in tutta la sua silhouette, baciato dal sole e sudato come un caimano.
Mi aspetto di salire sul treno e invece mi ritrovo davanti ad un albergo 4 stelle ad aspettare “Forfora” in compagnia di Sogliola, Amelia e la Vale. “Forfora”, ovviamente, è completamente pelato e arriva in pesante ritardo compiendo una terribile inversione a U nel mezzo di via Cavour a bordo di una improbabile Lancia Y tre porte. Sogliola per fortuna si siede davanti, ma dietro la situazione è comunque critica. Ripenso con scarso divertimento alla vecchia battuta dei cinque elefanti sulla cinquecento, posizionati tranquillamente due davanti e tre di dietro. Forfora deve portarci a Cinecittà e chiaramente non sa la strada. Abbiamo quattro navigatori e nessun segnale GPS. Brancoliamo nel buio, o meglio, nel casino devastante delle strade romane. L’autista pelato si infila il casco e inizia il giro di ricognizione. Il semaforo diventa verde e Forfora parte in ultima fila ma deciso a guadagnare posizioni su posizioni. Compie manovre azzardate, si infila zigzagando fra le auto e sfiora più di mille specchietti retrovisori dimostrando un’altissima conoscenza delle misure della sua Y e un sangue freddo degno di un navigato pilota di Formula 1. La sua sicurezza supera qualsiasi ostacolo e, sprezzante del pericolo, si permette il lusso di farsi la manicure al volante gettando nello sconforto gli increduli “avversari” che ormai lo vedono come un idolo automobilistico.

Magicamente arriviamo all’ingresso di Cinecittà. C’è Rocco che aspetta da circa un’ora. Si siede sul cofano ed entriamo tutti insieme, trionfalmente.

Marino ha gli occhiali scuri anche se il sole non c’è più da un pezzo, ma la cosa sembra non scalfirlo minimamente. Ci accompagna da Paolo. Ma come, di nuovo Bonolis nel mio sogno?

Il Fante con Paolo BonolisMi siedo su una poltrona decisamente comoda. Sono teso ma lo è anche lui. Per prima cosa ci offre un caffè (sai com’è). Rocco e Sogliola assistono con curiosità silenziosa. Il dialogo è rapido, sciolto, forse troppo, all’inizio anche un po’ sopra le righe. Però va avanti e seguendo vie apparentemente tortuose trova finalmente la sua meta in corrispondenza delle prime note di “Io vivo, io vivrò”. Paolo gradualmente si calma, poi si zittisce attratto dalla melodia e rimane rapito dalle parole, come se avesse improvvisamente capito di trovarsi davanti a qualcosa di eccezionalmente inaspettato. Chiama i suoi autori e racconta la mia storia. Rocco tace ma osserva, Sogliola gongola. Sale la percezione che sta accadendo qualcosa di incredibile.

Paolo si infila la maglietta NABB e la Vale scatta a ripetizione. Il dado è tratto.

Lo studio di Ciao Darwin è più piccolo di quello che pensavo, ma il pubblico è delirante. Ancora non c’è nessuno eppure applaude, ride sguaiatamente, compie smorfie sconsiderate. Invece Bonolis e Laurenti sono proprio come me li aspettavo. Madre Natura…meglio.

Con un balzo temporale ci ritroviamo tutti al Paradiso Terrestre. Si stappa, si brinda, si festeggia, ma soprattutto si mangia e…si beve il caffè.

I sogni sono incredibili, perché rendono reali le cose più pazzesche.

(ogni riferimento a fatti e persone è assolutamente NON casuale e incredibilmente reale. Grazie ad Amelia, Sogliola, Forfora e tutta AssiSLA)

Nessuno alzerà bandiera bianca.

21 gennaio 2010

Eccomi di nuovo qui con voi, carissimi compagni di viaggio. Ci siamo separati nel 2009 e ci ritroviamo in questo nuovo e fantastico (garantisco io) 2010. Eravamo ancora in novembre quando vi raccontavo della mia pigrizia cronica, nonostante i mille impegni in arrivo. Infatti, il primo dicembre a Forlì si è compiuta la seconda tappa del “tour de fant”(questa è bellissima). Il trionfo è stato totale. Seicento persone in delirio hanno accompagnato due ore di spettacolo ad altissima concentrazione adrenalinica, peraltro arricchite dalla performance di “Capitan Fede” alias Federico Poggipolini (per i pochi che non lo conoscono è la prima chitarra del Liga).
Il tour è poi proseguito sulla via Massarenti di Bologna il 14 dicembre in quel del teatro Tivoli, grazie all’organizzazione di chi mi ha aperto questa “finestra” (ASSISLA, ovviously). L’atmosfera più raccolta e il calore dei fan accorsi a proteggersi dalla prima nevicata invernale, ha dato vita al concerto forse più “hot” della serie. Il feeling fra palco e platea si è impadronito del teatro creando una nuvola avvolgente e quasi palpabile che ha rovesciato le anime. Il benessere interiore generato da quest’ultima performance mi ha contagiato per parecchi giorni dandomi la meravigliosa illusione di non essere più “inversamente sano”.
I giorni sono scivolati rapidamente verso la fine dell’anno e il 2009 mi ha lasciato con la netta percezione di essere sulla soglia di un anno indimenticabile. Tanto per cominciare ho sognato Paolo Bonolis. Avete capito bene, proprio Bonolis, quello di Peter Pan, di Darwin e di Sanremo. Lo so che c’è gente che sogna Madre Teresa di Calcutta o vede la Madonna, ma come sapete chi si accontenta gode. Insomma, faccio questo sogno dove ci siamo io e il Paolino nazionale al bar. Sono lì che mi gusto un caffettino e lui, con la sua faccia occhialuta, se ne esce con complimenti sperticati e voli pindarici sulle mie possibilità artistiche. La gioia è talmente forte che il sogno mi sembra vero, talmente vero che di fronte a me, seduto su uno sgabello, c’è anche il mio amico Sergio. Bonolis continua a parlarmi e il mio amico ha una faccia improbabile, i capelli biondicci schiacciati sulla faccia e gli occhi pesti di uno che ha bisogno di bere un the caldo per riprendersi da una notte devastante. Infatti sta bevendo un the.
Paolo esce dal bar e io ho il cuore talmente pieno di gioia per quello che mi ha detto che ho paura che mi scoppi. Guardo Sergio e lui ha sempre la stessa faccia, la tazza del the bollente in mano e gli occhi sempre più pesti. Però so che è felice per me.
Mi sveglio, e per un attimo tutto sembra reale. Poi mi rendo conto che sono sudato come una bestia e penso immediatamente a quello che ho mangiato la sera prima. Cazzo… la pastiera napoletana. Fatto sta che Paolo Bonolis non c’è più, ma in effetti era già uscito. Non sono nemmeno al bar, Sergio è sparito e con lui anche la tazza di the e lo sgabello. Ci rimango di merda e per un attimo mi abbatto. Ma è davvero solo un attimo. Mi bastano pochi secondi per metabolizzare e trasformare il tutto in un evento positivo.
E decido.
Da domani mi metto alla ricerca di Paolo Bonolis e il mio primo obiettivo per il 2010 sarà quello di riuscire a ripetergli tutte le cose fantastiche che è venuto a raccontarmi in sogno… dopo che gli avrò fatto ascoltare il mio CD sono sicuro che il sogno diventerà realtà.
Se qualcuno di voi può darmi una mano a trovarlo…

Nessuno alzerà bandiera bianca.

15 novembre 2009

Pensa che ti ripensa

Mi sono arrovellato per un sacco di tempo. Ho pensato e ripensato, eppure non mi veniva in mente nulla. Il tempo passava e…niente da fare, il mio cervello sembrava una tabula rasa. “Eppure” -mi dicevo- “scrivere è il mio mestiere. Magari sono più bravo con le canzoni, però, dai, anche i miei scritti non sono così male.” Anche il garbato sollecito di Amelia aveva avuto l’unico effetto di raggiungere la presa di coscienza del trascorrere del tempo. Una data. Non scrivevo nulla dal 29 settembre…come la mitica canzone di Lucio Battisti cantata anche dall’Equipe 84…”seduto in quel caffè, io non pensavo a te…”
E infatti pensavo a tutto meno che a scrivere. Mille cose per la testa. Il fantastico concerto di Bologna, il disco, le prove per il concerto di Forlì (1 dicembre, teatro Diego Fabbri, ore 21, n.d.a.), la prossima uscita del DVD LIVE. Tutto molto bello, tutto molto impegnativo. Eppure qualcosa non girava nel verso giusto.
Il secondo sollecito di Amelia aveva l’effetto di una sveglia. Dapprima leggermente infastidito, poi finalmente lucido, ho iniziato a rendermi conto della realtà delle cose. Gradualmente il mio cervellino riprendeva a darsi da fare per spostare gli ostacoli e soffiare via le nebbie che impedivano la vista della facile soluzione. Davanti ai miei occhi era finalmente tutto chiaro. Non scrivevo semplicemente perchè non ne avevo voglia. O meglio. Scrivere era e rimane la mia vita, ma un mostro orrendo si era impadronito di me banchettando con gli scarti vomitevoli della bastardissima s.l.a. Il suo nome? PIGRIZIA!!!
Ma non è tutto.
Adducevo scuse banali che poi diventavano convincenti. Raccontavo a me stesso e agli altri di non riuscire più a scrivere perché mani e braccia avevano oramai ceduto, seppure con l’onore delle armi (vero, ma solo in parte). Ripetevo a me stesso e agli altri che avevo bisogno di un qualche ausilio che potesse aiutarmi a riprendere la mia attività di imbratta carte (si può dire così anche scrivendo col PC?).
Una seconda viscida piovra stava pasteggiando all’interno della mia testa, una complice asservita alla MALATTIA (che parola odiosa) capace di addormentare la mia mente portandola a uno stato di sopore semi vigile. Una nemica ancora più pericolosa della stessa s.l.a. che mi stava trascinando nel più pericoloso degli abissi. Il suo nome? RASSEGNAZIONE!!!
La mia apparente nonché universalmente riconosciuta (quindi protettiva) iperattività nascondeva in realtà due grandi alleati della s.l.a.
Adesso, con la fronte imperlata di sudore ghiacciato per lo scampato pericolo, ho giurato a me stesso che non permetterò più che PIGRIZIA e RASSEGNAZIONE mi privino del mio diritto e desiderio di essere uomo e “persona”. Non consentirò più che mi tolgano il piacere di vivere. Non fatelo nemmeno voi, amici miei. Non fatelo mai.

Nessuno alzerà bandiera bianca.

22 settembre 2009

Una parola aiuta

Avere la SLA è già di per se un problemino leggermente insormontabile, ma per quello che mi riguarda sono le cose che le stanno attorno ad essere devastanti.

Innanzi tutto la definizione di malato.

Certo è assolutamente innegabile e inconfutabile lo stato di malattia di chi è affetto da SLA, ma insomma, c’è modo e modo. La parola in questione non ispira sicuramente gioia ed allegria, ma che diamine! Il significato di una parola è spesso figlia di chi la pronuncia. E allora ecco che sulla faccia di chi emette il suono della maledetta parola si creano rughe di ampiezza allucinante, le sopracciglia si aggrottano e si abbassano e l’occhio tende a somigliare a quello di una carpa. In certi casi arrivano ad assumere la tipica aria da cane bastonato, forse per trasmettere maggiore solidarietà.
Poi vorrei sapere perché ci si esprime in termini di “malato” e non di “persona malata”? Forse un malato non è più una persona? Perché si dice che è “malato di SLA” e non semplicemente “ha la SLA”? Attenzione perché non sono differenze da poco per chi le deve continuamente ascoltare.

Se non vogliamo convivere continuamente con la tristezza del nostro presente e del nostro futuro, ritengo necessaria una ribellione lessicale.

Ma come? Gli spazzini sono diventati operatori ecologici…i contadini sono ormai cesellatori di zolle (giustamente, creano opere d’arte visto quello che costano in negozio)…i disabili si sono opportunamente trasformati in  diversamente abili…e noi dobbiamo rimanere semplici malati? E no! Da oggi non voglio più subire lo sguardo miserando di chi mi definisce “malato”. Da oggi voglio essere un brillantissimo “inversamente sano”!

Una celebre e antica pubblicità su un prodotto che favoriva la defecazione sentenziava: “ basta la parola!”.

A noi inversamente sani con la SLA certamente la parola non basta, ma credetemi…sicuramente aiuta. Alla prossima.

AssiSLA Onlus in memoria di Raffaella Alberici è una giovane e pimpante associazione regionale di persone che si occupano di persone.
Ovvero di persone che cercano di rendersi utili in ogni modo a loro possibile ad altre persone. Queste ultime sono, o possono rapidamente divenire in uno stato di necessità. Progressivamente sempre più importante.
E, non essendo presenti altre possibilità alla voce medici e cure, lo sforzo si dirige tutto sulla qualità della vita, sul distogliere queste persone da quelle occupazioni odiose che si ritrovano normalmente al capitolo della burocrazia inefficace, o del sistema sociosanitario impreparato, imbranato al limite della burla, dei trasporti che non ci sono, ecc. Sino ai familiari che si spaventano e si allontanano, o agli eccessi di solitudine. Tuttavia essendo l’associazione giovane e pimpante, per non buttare a caso l’entusiasmo dei propri soci essa ha bisogno di occhi esperti e della voce sincera di persone che conoscano che vivano quest’esperienza. Gianluca la vive con uno stile affatto personale. Energico e trafittivo, colpisce la malattia con occhio attento e lingua tagliente, aprendo per noi una nuova finestra su questa esperienza quotidiana. E con queste righe che seguono apre appunto il suo primo appuntamento con la rubrica “la finestra” a lui dedicato sul sito assisla.it.

Onorato, ma soprattutto sinceramente ammirato ve lo porgo, condividendone (da sempre, seppure questa sia la prima volta che lo leggo) ogni parola.

Filippo Martone – AssiSLA onlus in memoria di Raffaella Alberici – presidente.

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